Ana

Che annata sono queste lacrime?”, le chiese Pascal, toccandole il volto umido.

2013? Oppure una vendemmia più recente?”.

Ana gli rivolse un timido sorriso.

Sei tu il contadino. Che ne pensi?”.

Pascal si portò alla bocca la punta del dito bagnato e lo leccò. “Qualsiasi vendemmia sia, sento che è stata un annata difficile”.

E’ stata un’annata difficile”, concordò lei. “Come questa settimana. Ho avuto una serie di ripensamenti, mi sono chiesta se avrei potuto evitarlo. Ho implorato l’universo di disfare l’accaduto. Anche adesso sento la stessa tremenda disperazione, quella che ti fa dire all universo che daresti qualsiasi cosa, cederesti qualsiasi cosa per provare qualcosa di diverso, da questo dolore senza fine”.

Chiuse gli occhi e inspirò forte. Lo sapeva l’universo se avrebbe fatto di tutto per evitare di spargere quelle ceneri, l’indomani.

Però”, proseguì, tornando al presente,, “anche quella notte, sola nel mio letto, sapevo di esserne io stessa la causa. E forse quella consapevolezza era l’unico segnale di speranza per me”.

Per quanto tempo ti ha punita perchè avevi visto tuo padre?”, domandò Pascal.

Molto tempo”. Ana si drizzò a sedere, mentre Pascal si girava sula schiena. Lei aveva ancora la camicia da notte ma Pascal era nudo nel letto, con le lenzuola che gli coprivano i fianchi e il petto nudo e invitante.

Quando sei adolescente, ogni giorno in cui non ottieni quello che desideri ti sembra un’eternità. A quell’età il tuo cuore è sotto un lente di ingrandimento, tutto è sproporzionato”.

Quanto tempo è passato prima che voi due rincominciaste a parlare, dopo quella notte?”

Ana ripensò a quel periodo orribile.

Lo ricordava come un inverno particolarmente scuro, freddo e nevoso. La fanghiglia faceva diventare le strade grigie e scivolose. Ma in quel suo scrigno di cupi ricordi splendeva una stella.

Natale”, rispose.

Vi domandate mai perchè quando veniamo messi da parte da una persona faccia così male? Angelica sicuramente se l’è domandato. Anche io. e probabilmente altre centinaia di persone. Se non migliaia.

Al momento ho la testa, la mente piena di pensieri assurdi, e mille domande, che probabilmente non avranno mai una risposta. E non riesco a smettere di pensare, perchè non riesco nemmeno a concentrarmi, fatico anche a scrivere,o a parlare. Non mi va molto a dire la verità di parlare, ma ne ho anche il bisogno. Non so più cosa fare. Perchè io ho già fatto qualsiasi cosa fosse in mio potere per avere una conclusione diversa. Eppure, si vede che la codardia, la paura e l’egoismo, e il non rispetto verso le persone portano a questo. Ho avuto talmente tanti problemi in questi mesi,  e tu non ci sei mai stato, nemmeno quando ti ho cercato. A differenza tua io però, correvo sempre anche alla minima cazzata. IO CI SONO SEMPRE STATA. Ed essere trattata come un giocattole che poi abbandoni in soffitta non mi si addice. Capisco tutte le tue motivazioni, anche se non le apporvo. Ma non capisco il perchè tu non mi abbia tipo bloccata o cose del genere se volevi chiudere i rapporti? Cioè che cosa vuoi da me? Pensi di tornare? O hai intenzione di farmi aspettare per molto? Perchè se mi fai aspettare per molto quel minimo di perdono che avrei potuto darti non lo avrai mai. Non sono più tenuta al rispetto nei tuoi confronti dato che tu non nei hai nei miei. Cosa ti fa credere che magari in un momento di rabbia pura e totale io  non trovi il modo di sputtanarti al mondo? Cosa ti fa pensare di essere salvo?
Dovresti saperlo, che ormai io ne so una in più del diavolo.

Potrei essere malvagia, cattiva ed egoista anche io e potrei farti del male, senza nemmeno toccarti.

Non fosse che io sono migliore di così, migliore di te, il coraggio ce l’ho.  La forza  pure, anche se io non la sento al momento. Ma so di averla.

So che stai male, perchè lo sento. So che ci tieni ancora perchè lo sento. SO che hai paura, perchè lo sento. Ma non so il perchè ti sei spinto a fare questa cosa. e vivrò con questa domanda per tutto il tempo. Ormai le tue risposte posso arrivare come non, ma a lungo andare non saranno più necessarie, perchè io non avrò più voglia di sapere le tue ragioni.

Quindi in caso tu legga, sappi che la mia vita è bella anche senza di te, perchè sono io la parte più importante di essa.

E’ stato bello e terrò solo i ricordi giusti. Ma non credo tu sia più degno.

Nora

E chiudendo gli occhi immagino…

Se non fosse così doloroso ed illusorio immaginare chiudendo gli occhi in questo momento, lo farei subito. Ma vedete, cari lettori, dovreste chiederlo ad Ange, se  conviene davvero chiudere gli occhi e immaginare.

Nel momento stesso in cui chiudi gli occhi, vedi ricordi pensieri, e una piccolissima parte della popolazione sente anche tutte le emozioni. Quelle attuali. Quelle provate. Passate. Quindi, come Ange, dovremmo chiederci se ne vale la pena. Vale la pena soffrire? Essere felici soltanto per un secondo, e poi vedere tutto scomparire. Vanificarsi.

Nella correre della vita stessa, incontriamo persone cn cui ci leghiamo, persone che amiamo, persone che lasciano un segno indelebile sulla pelle di ognuno di noi. Non tutte restano però, la maggior parte di loro ci abbandona. Per paura il più delle volte, o per ragioni che non sono poi così valide da rompere ogni genere di rapporto. Eppure, nel rompere i legami, pochissime volte, sono entrambe le parti a decidere.  Le relazioni sono da entrambi i lati, ognuno deve fare il suo. Dovrebbe essere una melodia che risuona dolcemente nell’aria invernale a Parigi, mentre siamo entrambi là seduti, o ai piedi di qualcuno, oppure sopra a qualcuno.

Attenzione però, tutto ciò alle volte si muta, e ci ritroviamo soli, nella foresta nera, nel freddo buio invernale, con le nostre emozioni, i nostri pensieri. Spogliati da tutte le promesse. Nudi. Come quando ci siamo fidati la prima volta ed abbiamo aperto il nostro cuore. Confidandoci. Conoscendoci.

Eppure, se una persona a noi cara, decide per entrambi, siamo noi che, anche essendoci sempre stati finiamo con il soffrire. A mangiare scatole di gelato piangendo davanti ad un film triste, che ci riporta alla mente i ricordi, che pur essendo un bagaglio importante della nostra vita, in quel momento ci prendono il cuore e continuano a stringerlo sempre più forte, da non farci più ragionare…

Io se chiudo gli occhi non immagino solo Fiumicino, ma rivivo tutti gli avvenimenti passati, soffrendo, gioendo, piangendo. Mettendomi a nudo. Ma stando sempre in piedi. Perchè la nostra vita, non gira mai solo intorno alle persone che ci circondano. Gira soprattutto intorno a noi stessi, siamo noi che ci lasciamo ferire, lasciamo che il dolore prenda il sopravvento. Dovremmo essere orgogliosi di chi siamo e come siamo, senza mai abbassare la testa, perchè quello che pensiamo vale quanto le opinioni altrui.

 

Fear pt 2

Alain tornò al su dungeon e si mise ad aspettare, camminando su e giù. Il suo leto si stagliava al centro della stanza, al contrario di quello del professore.

Per Rupert, il dolore era il sesso. Sarebbe riuscito a essere come lo volava la scuola cattolica – un professore/biologo celibe- non fosse stato per Ana, la sua Angelica, che aveva bisogno della carne almeno quanto Alain aveva bisogno della paura. Poteva solo immaginare le scenate che sarebbero seguite a un eventuale abbandono sessuale da parte sua. Ma Rupert non l’avrebbe mai fatto. Impartire dolore gli dava piacere, e il sesso che seguiva quella pratica era solo un riverbero. E a chi non piacevano, i riverberi?

Alain si fermò con un piede a mezz’aria quando sentì lo scricchiolio del pavimento in corridoio, proprio fuori dalla porta. In silenzio, vi si avvicinò e si mise in attesa. Dopo aver lasciato la scuola, aveva passato due anni nell’esercito, e poi altri cinque fingendo di farne ancora parte mentre serviva il suo paese in altre maniere, più discrete. Aveva imparato bene le regole delle spie.

“Guarda tutto ma non dare mai nell’occhio. Ascolta tutto ma non farti mai sentire”. Quando Emma socchiuse la porta e fece il suo ingresso, di sicuro pensava di trovarlo a letto, ad aspettarla. E quando allungò la mano e la afferrò per un braccio, lei trasalì di paura.

Parfait.

Alain soffocò l’urlo di lei con la mano e la spinse contro il muro. Chiuse la porta con un calcio, mentre Emma cercava di divincolarsi dalla sua stretta.

Anche se superava il metro e sessanta, la sua flessuosa segretaria non riusciva a contrastare la sua forza – nessuna donna ce la faceva- ma questo non le impedì di provarci, conficcando i tacchi nelle assi di legno del pavimento mentre lui la trascinava verso il letto. Si contorceva tra le sue braccia, e lanciava urla contro la sua mano. Dio santo, in quel gioco era brava quanto lui. Nonostante fosse dilaniata da un desiderio pari al suo, riusciva comunque a inscenare una lotta senza quartiere. Ma lui sapeva che la brama che provava era pari o forse superiore alla sua.

Allentò la presa sui polsi quanto bastava per farla girare. Quella sera la volava a faccia in giù, china sul letto, impotente.

Le barre divaricatrici, le manette, i ceppi e le corde erano appesi al muro, tristi e inutilizzati. Preferiva schiacciarla con il suo corpo, senza usare nessun attrezzo.

“Monsieur…”, ansimò lei con gli occhi sgranati per lo spavento quando lui la spinse in avanti facendola ricadere sul letto. La sua pelle era intrisa dell’odore di paura e sudore, il più inebriante dei profumi. “Non… S’il vous plait…”

la voce di lei si incrinò alla fine della supplica e Alain si mise quasi a ridere. Chiunque proclamasse che “no vuol dire no” non aveva mai incontrato la sua Emma. Era il suo gioco preferito, certo, ma lo stesso valeva per lei.

Alain la agguantò dietro il collo e le schiacciò il viso sulle lenzuola per zittirla. Con la mano libera le alzò bruscamente il vestito, strappandolo. Era così bella, vestita di bianco panna. Il contrasto con la sua pelle pallida era illuminante.

L’aveva incontrata qualche anno prima su una spiaggia Greca.. lei aveva 24 anni, poco più che una bambina. Ma in quel poco tempo aveva già sofferto le pene di un migliaio di vite. L’aveva portata a casa con sé, era diventata di sua proprietà. E nel remoto caso che potesse dimenticare chi era il suo Padrone, quella era la procedura per rinfrescarle la memoria.

Con le ginocchia le schiuse le gambe, e nel frattempo si slacciò i pantaloni. Quando glielo spinse dentro, lei cacciò un urlo che chiunque, in corridoio, avrebbe potuto sentire. Ma non importava. Nessuno sarebbe accorso in suo aiuto.

La montò selvaggiamente, con affondi brutali. Poi fece un respiro profondo e comandò al suo cuore di rallentare. Voleva assaporare quel momento, guastarsi la sua paura. Non assimilava mai la paura di lei tutta insieme. La lasciava sempre respirare e decantare, prima di versarla e berla tutta d’un fiato.

A volte Emma dimenticava che si trattava di lui, del suo Alain, e si perdeva nel ricordo dell’uomo che le aveva fatto questo per odio, non per amore.

Quando sentiva il suo copro irrigidirsi sotto di lui, quando lei smetteva di lottare, Alain sapeva che il terrore aveva raggiunto l’apice.

E lui viveva per quei momenti.

Quei suoni gutturali, le urla di paura e dolore, erano i suoni più dolci che potesse immaginare. Solo loro riuscivano a far tacere la musica che gli risuonava in testa nelle orecchie dal momento in cui si svegliava finchè non tornava a cadere in un beato oblio. Un concerto per basso ascoltato trent’anni prima… e che ancora non riusciva a togliersi dalla testa.

Il respiro di Emma si fece più intenso. Fece un ultimo, coraggioso tentativo di fuga. Ma Alain le tirò le braccia all’indietro e la immobilizzò. E poi affondò ancora, più forte, e con un fremito le venne dentro, mentre i muscoli di lei gli si stringevano attorno in un orgasmo che aveva tanto cercato di combattere, prima di arrendersi di lui.

Lui si attardò dentro di lei e si godette la beatitudine di quel momento, la sua vacuità. I francesi avevano proprio ragione a chiamare l’orgasmo la petite mort… la piccola morte. Era morto dentro di lei, e ora assaporava quella morte, quella libertà, quei pochi secondi in cui si era sentito libero dall’incantesimo dell’unico uomo del mondo sotterraneo che indossava un camice bianco e non apparteneva a nessuno.

La risata di Emma lo riscosse dai suoi pensieri. Non potè fare a meno di unirsi a quell’ilarità post-coito. Uscì da dentro di lei e le lasciò andare le mani, poi si lasciò ricadere sul letto mentre lei si aggiustava i vestiti e si abbandonava sul suo petto.

“Mi hai fatto paura, Monsieur. Pensavo fossi ancora le prof”.

“Volevo farti paura. E no, sta pregando, je pense”.

“Pregando per cosa?”. Lei alzò gli occhi verso Alain, che le accarezzò la guancia. La sua bella Emma, la sua Emma, il suo gioiello. Era quanto aveva di più prezioso. C’era stata solo una persona che aveva amato di più. Ma quella che amava di più, la odiava con identico trasporto. Desiderò che la matematica del mondo coincidesse con la matematica del cuore: se così fosse stato, l’amore e l’odio che provava si sarebbero annullati, invece di raddoppiare il suo sentimento.

“Perchè la sua pupilla perduta prima o poi torni da lui, direi”.

Emma sospirò e gli si appoggiò di nuovo contro.

“Ma lei non si è perduta”. Gli baciò il petto. “Si è solo liberata dal guinzaglio”.

Alain scoppiò a ridere.

“E’ molto peggio di così, mon amour. La pupilla è scappata, e stavolta non ha neanche il collare”.

Fear

La paura era stata la parte che aveva preferito. La paura che l’aveva seguito come i suoi passi nei boschi in cui era scappato in cerca di rifugio e dove aveva trovato molto più della salvezza. Quei passi… e come aveva cominciato, il suo cuore, a battere sempre più forte mentre si facevano più vicini, più incalzanti. Aveva avuto troppa paura per continuare a fuggire, troppa paura che non l’avrebbero preso. Era scappato perchè voleva essere preso. Era quella l’unica ragione.

Alain si ricordò dell’aria che aveva inspirato di colpo mentre una mano dalla forza brutale gli si era serrata intorno al collo… la corteccia del tronco dell’albero che gli graffiava la schiena… l’odore dei sempre verdi intorno a lui, così potente che anche dopo trent’anni si eccitava non appena sentiva il profumo di un pino. E quando poi si era svegliato a terra, nella foresta, un nuovo profumo ricopriva la sua pelle: quello del sangue, il suo, e dell’inverno.

Dopo tutto quel tempo non era ancora riuscito a separare il sesso dalla paura. Nel suo cuore, le due cose erano collegate in modo inestricabile, eterno e impenitente. Quel giorno Alain aveva scoperto il potere della paura, la sua forza e anche il piacere che gli faceva provare, e adesso, trent’anni dopo, la paura era diventata il suo cavallo di battaglia.

Purtroppo, in quel momento Emma non aveva paura.

Ma lui poteva cambiare le cose.

Alain la guardò con la coda dell’occhio mentre sorseggiava il vino. Era in piedi accanto a Frank e al giovane Klaus, e sorrideva un po’ all’uno, un po’ all’altro mentre i due la deliziavano con la storia d come si fossero incontrati grazie ad Ana. In cambio di una giornata senza sentir nominare la favola Ana Jhonson, Alain avrebbe ammassato metà della sua fortuna in mezzo a Piazza Venezia, le avrebbe dato fuoco e sarebbe rimasto a osservarla mentre si riduceva in cenere. Magari fosse stto così facile, distruggere il mostro che aveva creato.

No, si corresse. Il mostro che loro avevano creato.

Emma lo guardò e gli sorrise di nascosto, un sorriso che non lasciava spazio all’interpretazione. Ma lui avrebbe pazientato, sarebbe rimasto in attesa e le avrebbe fatto credere di non essere dell’umore giusto. Avrebbe fatto crescere la trepidazione di lei, prima di sostituirla con la paura. E come la portava bene, Emma, la paura, come riluceva nei suoi occhi nocciola, come fremeva lungo la sua pelle color latte, e come le restava acquattata in gola, proprio come l’urlo che le aveva fatto rimangiare con una mano…

Alain sentì n formicolio all’inguine, e il suo cuore cominciò a palpitare. Appoggiò il calice di vino e si spostò dal bar alla sala sul retro, per proseguire nei corridoi del Quarto canto. Appena uscito dal bar, inciampò in qualcosa sul pavimento. Si chinò incuriosito. Scarpe. Un paio di scarpe. Le raccolse. Vernice bianca, tacchi a spillo… un quarantuno.

L’ultima volta che le aveva viste, erano ai piedi di Ana Jhonson.

Alain le osservò e si chiese come e per quale motivo fossero finite nel corridoio. Ana riusciva a fare quasi tutto con i tachi alti. L’aveva vista indossarli mentre sovrastava i masochisti più ardenti. Li aveva battuti, frustati, picchiati, presi a calci… con i tacchi era capace di stare in piedi sul collo di un uomo, di camminargli sulla schiena ferita, di stare in equilibrio su una gamba mentre l’altro piede veniva adorato.

C’era solo un’attività che non riusciva a fare con i tacchi alti: correre.

Portò le scarpe fino al piano sotterraneo, dove lui e alcuni degli altri VIP avevano i loro dungeon privati. Si fermò di fronte all’ultima porta a sinistra, ma non bussò prima di entrare.

Un uomo moro e alto, assorto nei suoi pensieri, era i piedi accanto al letto. Aveva le braccia conserte e la fronte corrugata.

“Non ti hanno insegnato a bussare?”.

Rupert distese le braccia e appoggiò una spalla alla colonnina del baldacchino.

Alain irrigidì la mascella.

“Sì, mi sembra di averlo sentito a lezione, ma non stavo attento”. Entrò nella stanza. Nessun dungeon al Canto rispecchiava il concetto di minimalismo quanto quello di Rupert.

L’unico arredamento era un letto a baldacchino in ferro battuto sistemato come un’alcova una croce di ant’Andre in bella vista e un unico baule pieno degli strumenti di tortura più svariati. Il lato sadico di Rupert era leggenda al Quarto Canto e in generale in tutto il mondo sotteraneo.

Non aveva bisogno di migliaia di fruste e scudisci o di dozzine di bastoni, sferze e trastulli. Rupert era un personaggio, uno che riusciva a piegare uno schiavo con una parola, uno sguardo, un’intuizione penetrante, e con la sua calma, quel freddo controllo che induceva anche l’essere più forte del mondo a tremare ai suoi piedi. Prima li soggiogava con il bell’aspetto, e poi con l’animale che si annidava nel suo cuore.

“Ti ho portato un regalo”.

Alain sollevò le scarpe tenendole per i cinturini. Rupert inarcò un sopracciglio.

“Non mi sembrano della mia taglia, no?”

“Della tua pupilla”. Alain le lasciò cadere sul letto. “Come sai. Ci sarai passato davanti, uscendo dal bar”.

Alain si fece sfuggire una breve, mesta risata.

“E pensare che mi era sembrato di sentirti dire che se aveva un po’ di pietà nel cuore non doveva abbandonarti per il suo Claudio”.

Rupert non rispose. Si limitò a fissare Alain con i suoi occhi d’acciaio.

L’altro resistette all’istinto di sorridere. Un sentimento così sconveniente. Lo tenne per sé finchè gli riuscì. Poi girò i tacchi e si defilò, citando una vecchia poesia mentre lasciava Rupert nella sua segreta in compagnia delle scarpe di Ana, appoggiate sul letto.

“Vidi bianchi principi e pallidi re,

scialbi guerrieri smunti, tutti del

color della morte.

E gridavano: la bella dama senza pietà

t’ha reso schiavo della sua volontà”

First meeting

Nelle ultime tre ore aveva corso come una matta in preda dall’ira, ma quando giunse davanti al palazzo di suo padre, la paura minacciò di prendere il posto della rabbia. L’edificio era al limite dell’agibilità. La gente per strada le passava davanti lanciandole sguardi sospettosi. Ma non intendeva arrendersi alle sue paure. Suonò il campanello dell’appartamento del padre. Quando usì la sua voce, le sembrò quasi compiaciutp.

Le aprì il portone e lei salì quattro fetide rampe di scale fino al suo appartamento. Lui aprì la porta e prima che potesse dirgli ciao, la prese tra le braccia e le strapazzò di baci.

Che bello vederti, papà”, ansimò lei, cercando di respirare.

Che diamine, non riesco a credere che tu sia venuta”. Si tirò indietro a guardarla. “Chi sei? E che hai fatto a mia figlia?”.

Sono tua figlia”.

Non sembri affatto la mia bambina . Sembri una ventenne, adesso. Quando è successo?”

Sono solo i vestiti e il trucco”.

Una super modella”.

Smettila”, ringhiò lei alzando gli occhi al cielo. “Sono troppo bassa”.

E troppo carina. Non hai preso da me “. alla fine la lasciò andare, e lei diede un occhiata all’appartamento. Un piccolo monolocale che sarebbe stato carino se qualcuno l’avesse pulito e ci avesse messo dei mobili decenti. Era evidente che suo padre non aveva il dono per l’arredamento d’interni.

So che non c’è molto da guardare”, si scusò entrando nel cucinotto. “Sapevo che non ci sarei rimasto a lungo. Ma dato che sei qui togliti la giacca. Mettiti comoda”.

Dubitava di poter davvero stare comoda in quel posto. Pile di piatti sporchi erano ammucchiate disordinatamente in tutta la casa, i vestiti erano sparsi sul pavimento. C’era puzza di fumo e cibo scaduto. Si tolse la giacca e la mise sulla spalliera di una sedia che le sembrò appena decente, rispetto al resto.

Allora… sai cosa ti succederà?”, gli chiese.

Vado in prigione”, rispose, e prese una birra dal frigorifero. “Ne vuoi una?”

Sai che ho sedici anni, vero?”

Non guidi, no?”

No”, rispose lei e prese la birra. Le era capitato di bere, ma mai davanti ai suoi genitori. Il vino della comunione non contava. Bevve un sorso, e trovò la birra disgustosa e fantastica in uguale misura.

Come va con i lavori sociali?”, le domandò il padre, e lei udì una nota di amarezza nella voce.

Non va male. Mi occupo della segreteria di alcune associazioni di benificenza. Vado a dare una mano al dormitorio dei senza tetto. Quest’estate ho fatto un campo estivo. E’ stato divertente”.

Bel lavoro, se riesci a fartelo dare. Sembra meglio del carcere”.

Lei fece una smorfia. “Mi dispiace, papà. Vorrei…”.

che cosa? Che cosa vorresti?”

Vorrei che tu non ci finissi, là dentro”.

Già, beh , siamo in due”.

Si scolò la birra in tutta fretta. Suo padre aveva una capacità innaturale di tollerare l’alcol, qualcosa che lui stesso definiva “Effetto scientifico”.

Sto ancora cercando di capire come hai fatto a cavartela così facilmente. Voglio dire, la cosa mmi entusiasma. Non voglio certo che la mia bambina finisca in riformatorio, eppure, come hai fatto? Lavori socialmente utili per cinque reati?”

Ho trovato un buon giudice. E un bravo avvocato”.

Dove l’hai trovato l’avvocato?”

Me l’ha pagato la scuola. Mi do da fare in laboratorio per ripagarlo”.

Buon per te allora, davvero”.

Allora hai detto che volevi andare a cena?”. Desideravaa disperatamente cambiare discorso. Sapeva che la storia dei lavoreti socialmente utili non convinceva fino in fondo il padre.

Sì. Certo. Prima però voglio chiederti una cosa”.

Sicuro? Che cosa?”

Anche io ho un avvocato. Un tipo sveglio. Tosto. Uno di quelli che è meglio non farsi nemico. In ogni modo, pensa che forse può farmi ottenere un nuovo processo”.

Un nuovo processo? Perchè?”

Un problema con le prove. Un poliziotto idiota si è sbagliato a mettere l’etichetta di una cartella, o cose del genere, non so. Ma se la sfanga e mi un nuovo processo, c’è la possibilità che non debba andare dentro”.

Non pensi che ci siano prove sufficienti contro d te?”

Se avessi un testimone che ritrattasse alcune dichiarazioni rilasciate agli agenti, potrebbe esserci possibilità”.

Angelica riuscì solo a guardare suo padre in silenzio. Lui aprì un altra birra. Lei la sua l’aveva appena assaggiata.

Vuoi che racconti delle cazzate per te sul banco dei testimoni? Ho fatto una deposizione, mi spediscono dritta al riformatorio se comincio a dire in giro che ho mentito alla polizia. Sono in libertà vigilata e ho già visto abbastanza serie tv per sapere che la falsa testimonianza è un reato. Un reato grave”.

Bimba, hai sedici anni. Anche se finisci in riformatorio, ne sarai fuori a diciotto anni. Si tratta solo di un anno e mezzo. Per me si parla di dieci anni o più. Ange”.

Non ho intenzione di mentire per te”.

Dieci anni. Quattordici anni. Non te ne importa? Non t’ importa di tuo padre?”
“E per me non sarebbe solo un anno e mezzo. Questo potrebbe mandarmi a puttane la vita. Secondo te, potrò inviare domande d’iscrizione al colloge indicando come domicilio un carcere minorile? Non credo che l’università di Bologna ammetta i criminali ai suoi corsi”.

L’università di Bologna?”, fece lui ridendo. “Pensi sul serio che andrai in un’università come quella?”

Sono sveglia papà, se non te ne fossi accorto. Seguo lezioni propedeutiche all’università. Ho buoni voti. Ottengo punteggi altissimi in quegli stupidi test d’intelligenza ce ci fanno fare”.

come pensi di pagartela? Prostituendoti?”

Mai sentito parlare di borse di studio?”

Frequenti una scuola di provincia e non ti prenderanno in nessuna università”

Non ci credo. Il mio professore dice che sono intelligente, e lui è la persona più intelligente che conosca”.

Se è tanto intelligente, perchè è un professore del cazzo?”

Sei uno stronzo”.

Non sono io quella che ha tradito il padre per salvarsi il culo”.

La colpa è solo tua, cazzo”, gridò lei in risposta. “Nessuno ti ha chiesto di fare il criminale. Mamma fa due lavori seri. Perchè tu non te ne puoi trovare uno?”

Vuoi che faccia due lavori come tua madre e diventi un poveraccio frigido come lei?”

Sempre meglio che essere uno sbandato pezzo di merda che lascia andare dentro la figlia al posto suo, no?”

La mano di suo padre guizzò fuori e la schiaffeggiò con una rapidità tale da farla sussultare, più per la sorpresa che per il dolore.

Lo guardava confusa, a occhi spalancati. “Spero che tu marcisca in prigione”, sibilò.

Il padre alzò la mano per schiaffeggiarla di nuovo. Lei si abbassò e cercò di oltrepassarlo. Lui la prese e la sbattè di peso contro il frigorifero. Lei lo respinse con tutta la sua forza e riuscì a sfuggirgli, anche se lui cercava di acchiapparla.

Scappò di corsa alla porta e scese le 4 rampe di scale più in fretta possibile, continuando ancora a sentire i passi di suo padre che la inseguivano. Arrivò in strada e ricominciò a correre. Girò l’angolo e trovò l’ingresso della metropolitana. Quando fece per prendere i soldi, si rese conto che con orrore che aveva lasciata la giacca a casa di suo padre. E tutti i suoi soldi erano nella giacca.

Porca puttana…”, sospirò. Non aveva niente. Niente tranne una stupida lista di domande per Rupert. Niente soldi. Niente chiavi. Niente biglietto del treno. Tutte le cose importanti erano nella sua giacca.

Disperata, studiò la carta della metro, sperando che le venisse in mente qualcuno, chiunque, che conoscesse in città o che potesse aiutarla. Le saltò agli occhi il nome di una strada. Via del corso, non sembrava molto lontana, tutto sommato. Quattro o cinque chilometri? Poteva arrivarci in quarantacinque minuti, se andava come una scheggia. Rupert le aveva dato quel biglietto, quel cazzo di biglietto da visita che era rimasto nella giacca, del suo amico che abitava in Via del Corso. Diceva di andarci in caso d’emergenza. Essere bloccata in città senza un soldo le sembrava un’emergenza.

Cercò di capire come orientarsi e riemerse di nuovo in strada, guardandosi intorno per accertarsi che suo padre non fosse nei paraggi e potesse vederla o inseguirla. Sembrava tutto tranquillo, cosi si avviò, camminando più in fretta possibile. Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni per riscaldarsi e cercò di non piangere. In cuor suo, aveva sempre saputo che suo padre era soltanto un delinquente, uno sbandato, un pezzo di merda; così come l’aveva chiamato lei. Ma aveva voluto crederci così tanto che le voleva bene, che sentiva la sua mancanza, che si si interessava a lei.

Un’ isolato dopo l’altro , si rimprovera di aver creduto a tutte le stronzate che le aveva rifilato lui. Voleva solo leccarle un po’ il culo per farla stare contenta, farle pensare che gli fregasse qualcosa di lei affinchè mentisse per lui.

La temperatura ebbe un brusco calo e l’aria le bruciava i polmoni e il naso. Mentre camminava, le lacrime le scendevano copiose dagli occhi. Pregò con tutto il cuore che questo amico di Rupert avesse pietà di lei e l’aiutasse a tornare a casa. Altrimenti, avrebbe preso un bicchiere di carta da un negozio e si sarebbe messa a elemosinare qualche spicciolo, come i senzatetto a cui passava davanti,rincantucciati sotto le coperte luride.

Finalmente raggiunse l’indirizzo che ricordava dal biglietto da visita. La casa in pietra bianca con finiture in ferro nero risplendeva come il sole alla luce dei lampioni.

Cavoli…”, sospirò. Casa? Quella non era una casa. Quello era un palazzo di Roma. Per cinque minuti buoni lo esaminò cercando di memorizzare tutti i dettagli. Tre piani o forse più. Da dove si trovava pensò di intravedere lastre di vetro sul tetto: forse una di quelle belle serre o verande, o come si chiamavano. La facciata della casa era bianca, ma tutte le finiture sulle finestre ad arco erano nere. Al primo piano c’era un balcone di ferro nero con della gente: uomini e donne, in abito da sera che entravano e uscivano dalla portafinestra. Si avvicinò, chiamando in rassegna il coraggio per bussare alla porta. Poi la vide. Tra le ombre sul lato della casa, individuò una Ducati nera.

Rupert?”, si chiese. Non riusciva a credere che fosse lì. Annabella le aveva detto che ra con la famiglia per il giorno dei santi e non sarebbe rientrato fino a domenica. Che cavolo ci faceva a una festa al Corso? Non lo sapeva, ma ovviamente intendeva scoprirlo.

Una notte con il re II

Angelica attese in corridoio, davanti all’ufficio di Rupert. Lui le aveva detto che se avesse immaginato quello che era accaduto la notte della prova, avrebbe dovuto dirglielo. Allora riscrisse la storia con la grafia più chiara possibile, la mise in una bella cartella nuova e gliela consegnò. Sembrava un ‘idea così bella, fino a quando lui non aprì la cartella, cominciò a leggere e le chiuse la porta dell’ufficio in faccia.

Perchè gliel’aveva data? Tutta quella storia era ridicola. La sua Ester parlava come se invece che nell’antica Persia vivesse nel 1998, e il suo re portava il jeans ed era buffo e goffo invece di essere reale. Reale. E la storia. Oddio, c’era tutta una roba di sesso, con Ester legata al letto mentre il re se la scopava.

Ed ora il suo prete la stava leggendo.

Angelica tornò nella dispensa e si mise a sistemare le donazioni. Perchè non c’era nessuno che regalava i ringo? Voleva solo mangiarsi un pacchetto intero di ringo e piangere per ore, ascoltando Whitney Houstun che cantava i will always love you a ripetizione. Invece andò in bagno e scoprì che le erano venute le sue cose. Questo spiegava le lacrime e la voglia di Ringo. Forse spiegava anche il suo improvviso momento di temporanea follia, quando aveva lasciato che Rupert leggesse la sua stupida storia.

Afferrò lo zaino e sedette sulla panchina fuori dall’ufficio d Rupert. Se lui fosse stato lì a chiamare gli infermieri della neuro perchè venissero a prenderla, voleva essere nei paraggi per strappargli il telefono di mano e perorare la sua causa. Per ammazzare il tempo, tirò fuori il nuovo libro di matematica e cominciò a sfogliarlo.

Ma che cazzo è questa roba?”, gridò mentre cercava di decifrare le spiegazioni che aveva davanti.

Angelica. Dillo tra te e te”.

Scusa”, mormorò lei. “Matematica”.

Scusata”.

Lo guardò. Aveva la sua storia in mano.

Mi scomunichi, vero?”

Perchè hai scritto questa storia?”, le domandò lui.

Non lo so. Stavamo parlando di Ester e di quello che era accaduto quella notte e… ho pensato che scriverlo sarebbe stato divertente. Così ho iniziato a scrivere e non sono riuscita a fermarmi”.

Non riuscivi a fermarti?”

No. Era come se la mia mano fosse posseduta da un demone che la faceva correre su e giù per il foglio”.

Si afferrò il polso destro come se fosse un collo e finse di strozzarlo finchè non si afflosciò.

Comunque, scusa. Non ti farò più leggere le mie storie strane”.

leggerò tutto quello che scrivi. Scrivi molto meglio di me”.

Davvero? Pensavo che fossero stupidaggini”.

Stupidaggini?”

Sì, sciocchezze. Infantili. Ho fatto battute sull’ imene”.

E’ satira”, osservò Rupert.

Satira? Non volevo fare satira. Volevo solo rendere la storia divertente per mostrare quanto sia ridicolo scegliere un capo di Stato solo perchè è bravo a letto”.

Usare l’umorismo per evidenziare le manie degli uomini, in genere di natura politica, fino a ridicolizzarle è satira, Angelica. E’ una forma di umorismo sofisticata e difficile che solo pochi autori adulti sanno padroneggiare”.

Oh”, fece lei. “Fico”.

Se non stai attenta, ti metto a lavoro sulla mia tesi”.

Angelica arrossì. Rupert sembrava parlare sul serio.

Non credi che gli farei venire un colpo, ai vecchi preti che leggono la tua tesi?”

Ne hai fatto quasi venire uno a me”, disse. Abbassò gli occhi sulla sua storia e scosse la testa. Lei si sentì immensamente orgogliosa di se stessa. Solo un raccontino e aveva conquistato Rupert.

Sentì qualcosa, qualcosa che non aveva mai provato prima. Potere. Poteva mettere le parole su un foglio e fare in modo che un uomo adulto pensasse cose perverse: per esempio, come sarebbe bello legare una vergine al letto e spassarsela fino all’alba. Era una sensazione che le piaceva, e le poteva dare assuefazione.

Posso tenerla?”, le domandò Rupert.

Vuoi tenere la mia storia?”

Penso che dovrei confiscarla. Sei troppo giovane per leggere cose del genere”.

Penso che dimentichi qualcosa: le ho scritte”.

La tengo io”, ribadì lui.

D’accordo, però devi darmi qualcosa in cambio”.

Che cosa vorresti? Ti prego, mantieni le richieste al di sopra del collo”.

Angelica acconsentì, con un sospiro. Non si poteva chiedergli di metterla a pecorina sulla panca, allora. Bene. Se era furba poteva ricavarne qualcosa. Lei gli aveva dato una storia sexy che aveva scritto con le sue mani, qualcosa di privato, personale, segreto. Segreto?”

Dimmi un segreto”, mormorò. “Di qualsiasi genere. Poi puoi prenderti la mia storia”.

Rupert fece un gran respiro.

Qualcosa mi dice che mi pentirò di averti rivelato questo, ma forse è un bene che tu lo sappia”.

Che cosa dovrei sapere?”

Ho un amico”, disse infine Rupert.

Un amico? Questo è il grande segreto?”

Non hai chiesto un grande segreto. Solo un segreto”

Perchè il tuo amico è segreto?”

E’ un segreto”.

Angelica aprì la bocca e la richiuse subito.

Ecco”, riprese Rupert. “Volevo farlo già da un po’”. Mise una mano in tasca e ne estrasse una scatolina d’argento. La aprì e tirò fuori un biglietto da visita. Carta nera. Inchiostro d’argento. Le porse il biglietto a qualche centimetro dalla sua mano.

prima di darti questo biglietto, devi farmi una promessa”, disse. “Non lo mostrerai a nessuno. Lo terrai per te. Non chiamerai il numero che c’è scritto sopra. Non andrai mai a quell’indirizzo, se non per un emergenza assoluta. E per assoluta intendo un avvenimento che si potrebbe definire apocalittico. Puoi farmi questa promessa?”

Lo prometto”, rispose lei.

Rupert la fissò per un altro istante, poi le lasciò il biglietto.

Ti sto offrendo un re in cambio del tuo re”, le fece notare Rupert, tenendo in alto la sua storia.

Angelica lesse il biglietto.

Alain, Alain interprises” c’era scritto. “ 40 via della repubblica”.

Il biglietto non conteneva altre informazioni, solo un numero di telefono.

Alain. Vive nella via principale di Roma? Dove abitano i ricchi,no?”

Rupert piegò la testa.

Alain non è privo di mezzi”.

Allora è ricco?”

Schifosamente”, rispose Rupert.

Ha una Ferrari?”

Ne ha due”.

Angelica riflettè un momento. Ora sapeva di chi era la Ferrari con cui Rupert se n’era andato quella sera.

E’ anche pericoloso, piccola, e non sto usando questa parola così per dire”.

Soffocò un sorriso. Quando la chiamava piccola le tremavano le dita, le prudevano i piedi e le si contorcevano le cosce.

Mi piace già. E’ lui il tuo amico?”

Sì. Ora metti via il biglietto. Tienilo da parte. Da usare solo in casi di emergenza, chiaro?”

Chiaro”.

Angelica infilò il biglietto nella tasca posteriore.

D’accordo, adesso puoi prendere la mia storia”.

Grazie”. Rupert si mise la cartelletta sotto il braccio. “Prima di prendere pieno possesso di questo raffinato esempio di satira erotica, posso farti una domanda?”

Vorrei proprio che non lo facessi”.

Perchè il re lega Ester al letto?”.

Angelica abbassò la testa di lato. Non si aspettava quella domanda.

Non lo so. Ho letto un mucchio di libri di Annie Rice e c’è un sacco di roba simile”.

Io credo che tu sappia perchè l’hai fatto, e il motivo non è che l’hai letto in un libro. Dimmi la verità”.

Lei riflettè per un momento sulla domanda.

Credo che la legò al letto per la stessa ragione per cui un uomo intelligente che non è un idiota chiuderebbe la sua Ducati con un lucchetto”.

Perchè non vuole che gliela rubino?”

No”, replicò lei, e sapeva di avere la risposta giusta. Se fosse stato un compito in classe, si sarebbe presentata solo con la matita.

Allora perchè?”

Perchè a lui piace così”.

Look at me

The escape

Qualcuno stava seguendo Ana Jhonson.

Lei ne era ignara mentre attraversava in auto le Alpi fino al cuore del Parc national suisse. Dopotutto, chi avrebbe potuto farlo? E per quale Ragione? Nessuno giù a casa sapeva perchè fosse partita, e in assoluto nessuno sapeva dove fosse andata. Teneva gli occhi sulla strada davanti a sé, senza neanche pensare di guardarsi indietro una volta.

Un disagio. Un terrore muto si era fatto largo nella sua mente e vi si era insidiato. Il sole, che l’aveva accompagnata per quasi tutta la sua esistenza, inseguiva l’auto lungo la corsa nella strada costeggiata di abeti rossi svettanti.

Ad Ana sembrava che le ombre volessero catturarla e imprigionarla. Spinse l’acceleratore e si addentrò nella foresta.

Giunse infine al termine della strada e intravide una piccola villa con il tetto in legno, nascosta tra gli abeti e i pini. Era una piccola casa a due piani in legno: sembrava uscita da un libro di favole. Avrebbe potuto abitarci un falegname dall’animo gentile, di quelli che salvano le bambine dalle grinfie del lupo cattivo. Se la casetta era parte di una fiaba, lei allora chi era? Il falegname? La bambina?

O il Lupo?

Raccolse le sue cose dall’auto e si avviò a grandi passi verso la casa. Il proprietario l’aveva avvisata che la porta non si chiudeva a chiave, ma le aveva anche garantito che sarebbe stata al sicuro. Quella parte del parco era un terreno privato. Nessuno l’avrebbe disturbata. Proprio nessuno.

L’edera ricopriva la casa dalla base fino al camino. Quando varcò la soglia, si sentì catapultata indietro di seicento anni. Guardandosi intorno fece il suo piano per la giornata. Avrebbe accesso il fuoco nell’enorme caminetto di pietra bianca. Avrebbe bevuto il tè nelle tazze di ceramica. Avrebbe dormito sotto pensanti lenzuola in un letto rustico, dai montati in legno tagliato con l’ascia.

In un momento diverso e in circostanze diverse, le sarebbe piaciuto un sacco. Ma aveva il cuore distrutto dal dolore e l’attendeva un compito difficile. E non era nella natura di Ana entusiasmarsi all’idea di dormire da sola. Portò le sue borse nella camera da letto di sopra, l’unica della casa, e si inginocchiò a terra accanto alla più piccola delle due valigie. Con attenzione, aprì di malavoglia la cerniera della borsa. Dal rivestimento di velluto estrasse una scatola d’argento, grande come un piccolo dizionario, e la tenne tra le mani tremanti.

Come il padrone di casa aveva promesso, trovò il sentiero lastricato che conduceva al lago. L’odore degli abeti la circondava, mentre percorreva il sentiero. Era aprile, ma quel profumo le faceva pensare al Natale… Astro del ciel suonata al piano, candele rosse e verdi, nastri d’argento decorazioni dorate e Babbo Natale che arriva e nasconde monete nelle scarpe di tutti i bravi bambini. Pigramente, desiderò che quella sera Babbo Natale venisse a trovarla. Avrebbe apprezzato la compagnia.

Il sentiero si allargò e lei vide davanti a sé il lago: le acque scure ma limpide, colorate d’oro dai raggi del sole che sbucava da dietro le nuvole. Restò in piedi sulla riva sabbiosa , sul bordo dell’acqua. Poteva farlo. Si preparava a quel momento da giorni, si preparava quello che avrebbe detto e a come l’avrebbe detto. Sarebbe stata forte. Per lui, l’avrebbe fatto. Poteva farlo.

Deglutì e poi inspirò in fretta.

Rupert…”. Si fermò non appena ebbe pronunciato il suo nome. Non riusciva a tirar fuori nessun altra parola. Le restavano nella gola, la soffocavano come una mano intorno al collo. Con le spalle rivolte al lago, tornò verso la casa: un po’ camminava e un po’ correva, sempre sempre stringendo al petto la scatola d’argento. Non poteva ancora lasciarla andare. Non poteva dirle addio. Mise la scatola d’argento sulla larga mensola di legno del camino e si voltò. Se l’avesse ignorata, forse sarebbe riuscita a credere che non fosse mai accaduto.

Fuori dalla casa si levò il vento.

Gli scuri traballanti, ricoperti d’edera, sbattevano contro i muri di legno. L’aria odorava di ozono: stava giungendo un temporale.

Ana accese due fuochi: uno nel grande camino di pietra e l’altro nel caminetto più piccolo, in camera da letto. Il padrone di casa le aveva lasciato il frigo e la dispensa pieni. Una premura superflua. Ormai da due settimane aveva perso l’appetito, e si sforzava di mangiare solo per allontanare le emicranie prodotte dalla fame.

Trascorse la giornata indaffarata in piccole cose. La casa era pulita, ma lavare tutti i piatti in una grande tinozza di rame e spazzare il pavimento di pietra con una scopa da strega trovata nel ripostiglio le dava un senso di utilità. Si diede da fare finchè la stanchezza non ebbe la meglio e si distese sul letto a sonnecchiare.

Ana i svegliò da un sonno agitato, senza sogni, e riempì d’acqua la vasca da bagno di porcellana decorata, con i piedini di ferro. Affondò in quel calore, sperando che la penetrasse nella pelle aiutandola a rilassarsi. Eppure, quando un’ora più tardi uscì dalla vasca con la pelle rosa e raggrinzita, si sentiva ancora tesa come un corda di violino.

Indossò una lunga camicia da notte lilla dalle spalline sottili. L’orlo le solleticava le caviglie mentre camminava, sfiorandole i piedi nudi.

Per distrarsi, restò in piedi davanti allo specchio ad acconciare e appuntarsi i capelli in un modo e in un altro: intrecciò le onde nere in un nodo basso con le ciocche che le ricadevano sul collo e le incorniciavano il volto. Quando ebbe finito, scoppiò quasi a ridere per l’effetto ottenuto. Con quella camicia da notte bianca, quasi senza trucco e i capelli pettinati a boccoli, sembrava una sposa vergine la prima notte di nozze. Una sposa di una certa età, ovviamente: il mese prima aveva compiuto trentadue anni. Eppure, quella donna allo specchio aveva un aria pudica, innocente, persino timorosa. Ana era convinta che il dolore invecchiasse le persone, ma quella sera si sentiva nuovamente adolescente: inquieta e in attesa, bramosa di qualcosa che non era in grado di nominare, ma di cui sapeva di aver bisogno. Ma cos’era? Chi era?

Gironzolò al piano inferiore e valutò l’idea di mangiare qualcosa. Invece di nutrire se stessa, alimentò il fuoco. Mentre il legno scoppiettava e bruciava, un fulmine attraversò il cielo fuori dalla finestra della cucina. Poco dopo, si udì rimbombare un tuono. In piedi avanti alla finestra, Ana osservava la notte squarciarsi. Raffiche di tuoni scossero il parco, a coppie. Tra i boati Ana udì un suono diverso. Più forte. Più chiaro. Più vicino.

Dei passi sulla pietra.

Un colpo alla porta.

Poi il silenzio.

Ana restò immobile. Non ci sarebbe dovuto essere nessuno laggiù.

Solo lei.

Il proprietario le aveva promesso l’isolamento. Le aveva detto che quella era l’unica casa nel raggio di chilometri. Tutto il terreno circostante era suo. Sarebbe stata al sicuro. Sarebbe stata sola.

Un altro colpo.

La porta d’ingresso non si chiudeva a chiave. Chiunque fosse là fuori, poteva entrare in qualsiasi momento. Da ormai due settimane le sue uniche emozioni erano dolore e tristezza. Ora provava qualcos’altro: paura.

Rupert però l’aveva addestrata fin troppo bene “ Non dimenticate l’ospitalità,alcuni, praticandola, senza sapelo hanno accolto degli angeli”. Solo che quella notte non era adatta né per gli angeli, né per i diavoli, né per i santi, né per i peccatori.

Spalancò la porta. Oltre la soglia c’era un uomo, e non un angelo.

Cerco rifugio”.

I capelli scuri erano zuppi di pioggia che gli imperlava la giacca di pelle.

Che diavolo ci fai qui?”, gli chiese lei, incrociando le braccia al petto, consapevole della scollatura della camicia da notte. Avrebbe dovuto mettersi una vestaglia.

Sto implorando per un rifugio. Devo chiederlo ancora? Ho bisogno di un riparo”.

Mi hai seguita?” gli domandò.

La sera prima era arrivata in aereo a Marsiglia e aveva cenato con lui. Non poteva immaginare che l’avrebbe seguita fino in Germania.

Volevo arrivare prima, ma ho preso la svolta sbagliata alla casetta di Hansel e Gretel. Mi ha dato le indicazioni un bambina con un cappuccio rosso ed ora sono qui, Biancaneve”.

Hai trovato la strada fin qua, Cacciatore. Conosci la strada per tornare indietro”. Gli disse. “Non posso offrirti rifugio”.

Perchè no?”

Lo sai cosa succede se ti faccio entrare”.

Proprio quello che vogliamo entrambi”.

Non può essere. E non c’è bisogno che ti spieghi il motivo”.

Il sorriso sul volto di lui si spense.

Hai bisogno di me”, mormorò.

Non importa. Devo fare questa cosa da sola”.

Non devi farla da sola”. Fece un passo in avanti, quasi impercettibile. Le punte dei suoi stivali grigio chiaro, zuppi d’acqua, toccarono la soglia senza varcarla.
“Fai troppe cose da sola”.

Non posso lasciarti entrare”, ribadì lei, e di nuovo sentì quel groppo in gola.

Lui vuole che affronti questa cosa da sola?”

No”, rispose lei.”Non è quello che vuole”.

Fammi entrare”.

Sembra un ordine. Lo sai chi sono io. E sai anche che sono io a darli, gli ordini”.

Ana sentì vacillare la propria determinazione: era sul punto di sgretolarsi. Ventisei anni, alto e abbronzato, con i capelli scuri appena ondulati che invitavano ad essere accarezzati e arruffati dalle mani di una donna.

Gli occhi erano chiari, color del cielo: eredità della madre egiziana, e un viso che qualcuno avrebbe dovuto scolpire, in modo da immortalarlo per l’eternità… Come si poteva respingere un uomo simile?

Allora ordinami di entrare”, la supplicò lui.

Lei chiuse gli occhi e si aggrappò alla porta per sorreggersi. Era un errore, e lo sapeva. Aveva giurato ancora prima di vederlo che non l’avrebbe fatto, mai, e non con lui. E ora, dopo tutto quello che era accaduto e il dolore che voleva annientarla, chi l’avrebbe biasimata se si fosse consolata? Un uomo uno solo l’avrebbe biasimata. Ma questo bastava per fermarla?

Ordinami di entrare”, ripetè lui, e Ana aprì gli occhi. “Ti prego”.

Non aveva mai saputo resistere alle insistenze di un bel uomo.

Vieni dentro, Pascal”, disse con voce imperiosa al figlio di Alain.

E’ un ordine.”