The escape

Qualcuno stava seguendo Ana Jhonson.

Lei ne era ignara mentre attraversava in auto le Alpi fino al cuore del Parc national suisse. Dopotutto, chi avrebbe potuto farlo? E per quale Ragione? Nessuno giù a casa sapeva perchè fosse partita, e in assoluto nessuno sapeva dove fosse andata. Teneva gli occhi sulla strada davanti a sé, senza neanche pensare di guardarsi indietro una volta.

Un disagio. Un terrore muto si era fatto largo nella sua mente e vi si era insidiato. Il sole, che l’aveva accompagnata per quasi tutta la sua esistenza, inseguiva l’auto lungo la corsa nella strada costeggiata di abeti rossi svettanti.

Ad Ana sembrava che le ombre volessero catturarla e imprigionarla. Spinse l’acceleratore e si addentrò nella foresta.

Giunse infine al termine della strada e intravide una piccola villa con il tetto in legno, nascosta tra gli abeti e i pini. Era una piccola casa a due piani in legno: sembrava uscita da un libro di favole. Avrebbe potuto abitarci un falegname dall’animo gentile, di quelli che salvano le bambine dalle grinfie del lupo cattivo. Se la casetta era parte di una fiaba, lei allora chi era? Il falegname? La bambina?

O il Lupo?

Raccolse le sue cose dall’auto e si avviò a grandi passi verso la casa. Il proprietario l’aveva avvisata che la porta non si chiudeva a chiave, ma le aveva anche garantito che sarebbe stata al sicuro. Quella parte del parco era un terreno privato. Nessuno l’avrebbe disturbata. Proprio nessuno.

L’edera ricopriva la casa dalla base fino al camino. Quando varcò la soglia, si sentì catapultata indietro di seicento anni. Guardandosi intorno fece il suo piano per la giornata. Avrebbe accesso il fuoco nell’enorme caminetto di pietra bianca. Avrebbe bevuto il tè nelle tazze di ceramica. Avrebbe dormito sotto pensanti lenzuola in un letto rustico, dai montati in legno tagliato con l’ascia.

In un momento diverso e in circostanze diverse, le sarebbe piaciuto un sacco. Ma aveva il cuore distrutto dal dolore e l’attendeva un compito difficile. E non era nella natura di Ana entusiasmarsi all’idea di dormire da sola. Portò le sue borse nella camera da letto di sopra, l’unica della casa, e si inginocchiò a terra accanto alla più piccola delle due valigie. Con attenzione, aprì di malavoglia la cerniera della borsa. Dal rivestimento di velluto estrasse una scatola d’argento, grande come un piccolo dizionario, e la tenne tra le mani tremanti.

Come il padrone di casa aveva promesso, trovò il sentiero lastricato che conduceva al lago. L’odore degli abeti la circondava, mentre percorreva il sentiero. Era aprile, ma quel profumo le faceva pensare al Natale… Astro del ciel suonata al piano, candele rosse e verdi, nastri d’argento decorazioni dorate e Babbo Natale che arriva e nasconde monete nelle scarpe di tutti i bravi bambini. Pigramente, desiderò che quella sera Babbo Natale venisse a trovarla. Avrebbe apprezzato la compagnia.

Il sentiero si allargò e lei vide davanti a sé il lago: le acque scure ma limpide, colorate d’oro dai raggi del sole che sbucava da dietro le nuvole. Restò in piedi sulla riva sabbiosa , sul bordo dell’acqua. Poteva farlo. Si preparava a quel momento da giorni, si preparava quello che avrebbe detto e a come l’avrebbe detto. Sarebbe stata forte. Per lui, l’avrebbe fatto. Poteva farlo.

Deglutì e poi inspirò in fretta.

Rupert…”. Si fermò non appena ebbe pronunciato il suo nome. Non riusciva a tirar fuori nessun altra parola. Le restavano nella gola, la soffocavano come una mano intorno al collo. Con le spalle rivolte al lago, tornò verso la casa: un po’ camminava e un po’ correva, sempre sempre stringendo al petto la scatola d’argento. Non poteva ancora lasciarla andare. Non poteva dirle addio. Mise la scatola d’argento sulla larga mensola di legno del camino e si voltò. Se l’avesse ignorata, forse sarebbe riuscita a credere che non fosse mai accaduto.

Fuori dalla casa si levò il vento.

Gli scuri traballanti, ricoperti d’edera, sbattevano contro i muri di legno. L’aria odorava di ozono: stava giungendo un temporale.

Ana accese due fuochi: uno nel grande camino di pietra e l’altro nel caminetto più piccolo, in camera da letto. Il padrone di casa le aveva lasciato il frigo e la dispensa pieni. Una premura superflua. Ormai da due settimane aveva perso l’appetito, e si sforzava di mangiare solo per allontanare le emicranie prodotte dalla fame.

Trascorse la giornata indaffarata in piccole cose. La casa era pulita, ma lavare tutti i piatti in una grande tinozza di rame e spazzare il pavimento di pietra con una scopa da strega trovata nel ripostiglio le dava un senso di utilità. Si diede da fare finchè la stanchezza non ebbe la meglio e si distese sul letto a sonnecchiare.

Ana i svegliò da un sonno agitato, senza sogni, e riempì d’acqua la vasca da bagno di porcellana decorata, con i piedini di ferro. Affondò in quel calore, sperando che la penetrasse nella pelle aiutandola a rilassarsi. Eppure, quando un’ora più tardi uscì dalla vasca con la pelle rosa e raggrinzita, si sentiva ancora tesa come un corda di violino.

Indossò una lunga camicia da notte lilla dalle spalline sottili. L’orlo le solleticava le caviglie mentre camminava, sfiorandole i piedi nudi.

Per distrarsi, restò in piedi davanti allo specchio ad acconciare e appuntarsi i capelli in un modo e in un altro: intrecciò le onde nere in un nodo basso con le ciocche che le ricadevano sul collo e le incorniciavano il volto. Quando ebbe finito, scoppiò quasi a ridere per l’effetto ottenuto. Con quella camicia da notte bianca, quasi senza trucco e i capelli pettinati a boccoli, sembrava una sposa vergine la prima notte di nozze. Una sposa di una certa età, ovviamente: il mese prima aveva compiuto trentadue anni. Eppure, quella donna allo specchio aveva un aria pudica, innocente, persino timorosa. Ana era convinta che il dolore invecchiasse le persone, ma quella sera si sentiva nuovamente adolescente: inquieta e in attesa, bramosa di qualcosa che non era in grado di nominare, ma di cui sapeva di aver bisogno. Ma cos’era? Chi era?

Gironzolò al piano inferiore e valutò l’idea di mangiare qualcosa. Invece di nutrire se stessa, alimentò il fuoco. Mentre il legno scoppiettava e bruciava, un fulmine attraversò il cielo fuori dalla finestra della cucina. Poco dopo, si udì rimbombare un tuono. In piedi avanti alla finestra, Ana osservava la notte squarciarsi. Raffiche di tuoni scossero il parco, a coppie. Tra i boati Ana udì un suono diverso. Più forte. Più chiaro. Più vicino.

Dei passi sulla pietra.

Un colpo alla porta.

Poi il silenzio.

Ana restò immobile. Non ci sarebbe dovuto essere nessuno laggiù.

Solo lei.

Il proprietario le aveva promesso l’isolamento. Le aveva detto che quella era l’unica casa nel raggio di chilometri. Tutto il terreno circostante era suo. Sarebbe stata al sicuro. Sarebbe stata sola.

Un altro colpo.

La porta d’ingresso non si chiudeva a chiave. Chiunque fosse là fuori, poteva entrare in qualsiasi momento. Da ormai due settimane le sue uniche emozioni erano dolore e tristezza. Ora provava qualcos’altro: paura.

Rupert però l’aveva addestrata fin troppo bene “ Non dimenticate l’ospitalità,alcuni, praticandola, senza sapelo hanno accolto degli angeli”. Solo che quella notte non era adatta né per gli angeli, né per i diavoli, né per i santi, né per i peccatori.

Spalancò la porta. Oltre la soglia c’era un uomo, e non un angelo.

Cerco rifugio”.

I capelli scuri erano zuppi di pioggia che gli imperlava la giacca di pelle.

Che diavolo ci fai qui?”, gli chiese lei, incrociando le braccia al petto, consapevole della scollatura della camicia da notte. Avrebbe dovuto mettersi una vestaglia.

Sto implorando per un rifugio. Devo chiederlo ancora? Ho bisogno di un riparo”.

Mi hai seguita?” gli domandò.

La sera prima era arrivata in aereo a Marsiglia e aveva cenato con lui. Non poteva immaginare che l’avrebbe seguita fino in Germania.

Volevo arrivare prima, ma ho preso la svolta sbagliata alla casetta di Hansel e Gretel. Mi ha dato le indicazioni un bambina con un cappuccio rosso ed ora sono qui, Biancaneve”.

Hai trovato la strada fin qua, Cacciatore. Conosci la strada per tornare indietro”. Gli disse. “Non posso offrirti rifugio”.

Perchè no?”

Lo sai cosa succede se ti faccio entrare”.

Proprio quello che vogliamo entrambi”.

Non può essere. E non c’è bisogno che ti spieghi il motivo”.

Il sorriso sul volto di lui si spense.

Hai bisogno di me”, mormorò.

Non importa. Devo fare questa cosa da sola”.

Non devi farla da sola”. Fece un passo in avanti, quasi impercettibile. Le punte dei suoi stivali grigio chiaro, zuppi d’acqua, toccarono la soglia senza varcarla.
“Fai troppe cose da sola”.

Non posso lasciarti entrare”, ribadì lei, e di nuovo sentì quel groppo in gola.

Lui vuole che affronti questa cosa da sola?”

No”, rispose lei.”Non è quello che vuole”.

Fammi entrare”.

Sembra un ordine. Lo sai chi sono io. E sai anche che sono io a darli, gli ordini”.

Ana sentì vacillare la propria determinazione: era sul punto di sgretolarsi. Ventisei anni, alto e abbronzato, con i capelli scuri appena ondulati che invitavano ad essere accarezzati e arruffati dalle mani di una donna.

Gli occhi erano chiari, color del cielo: eredità della madre egiziana, e un viso che qualcuno avrebbe dovuto scolpire, in modo da immortalarlo per l’eternità… Come si poteva respingere un uomo simile?

Allora ordinami di entrare”, la supplicò lui.

Lei chiuse gli occhi e si aggrappò alla porta per sorreggersi. Era un errore, e lo sapeva. Aveva giurato ancora prima di vederlo che non l’avrebbe fatto, mai, e non con lui. E ora, dopo tutto quello che era accaduto e il dolore che voleva annientarla, chi l’avrebbe biasimata se si fosse consolata? Un uomo uno solo l’avrebbe biasimata. Ma questo bastava per fermarla?

Ordinami di entrare”, ripetè lui, e Ana aprì gli occhi. “Ti prego”.

Non aveva mai saputo resistere alle insistenze di un bel uomo.

Vieni dentro, Pascal”, disse con voce imperiosa al figlio di Alain.

E’ un ordine.”

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