Angelica

Due strade dirigevano in un bosco, e io.. io presi quella meno battuta, e questo fece la differenza”. La professoressa chiuse il libro con un sospiro malinconico, ed Angelica si sforzò di non battere la testa contro il muro.

Letteratura del secondo anno di università, e continuavano a leggere la stessa poesia che aveva letto in prima liceo?

Non esistevano forse milioni di altre poesie che potessero analizzare, oltre a la strada che non scelsi, altrimenti nota come la poesia del liceo che tutti ricordavano?

Qualche prima riflessione su questa poesia?”, chiese la docente.

Una ragazza in prima fila alzò la mano, Cristina qualcosa.

Mi piace questa poesia”, dichiarò. “Parla di scegliere un percorso che altri non scelgono. Essere una persona che quida, non che segue la mandria”.

Angelica sentì che il suo quoziente intellettivo precipitava.

Ottimo. Qualcun altro?”

Una matricola alzò la mano e ripetè a pappagallo quasi la stessa interpretazione. Un tipo che camminava in un bosco. Vede due strade. Sceglie quella che hanno preso pochi, e questo fa di lui un eroe e bla bla.

Angelica afferrò mentalmente una zappa e la schiantò in testa a quella matricola.

Grandi pensieri. Altre prime impressioni?”

Sì”, disse a gran voce Angelica. “Siete tutti un branco di idioti”.

In aula calò il silenzio. Gli occhi dell insegnante si spalancarono. Alzò il mento e guardò Angelica. “Deve avere un ottimo argomento per sostenere una simile affermazione”.

Ce l’ho, un ottio argomento. Legga la poesia”.

Ho letto la poesia, e sono d’accordo con loro”.

Non c’è più speranza per l’umanità”. Angelica si accasciò sulla sedia con un sospiro. A dicinnove anni, era giunta alla conclusione che se non stava nella stessa stanza con Rupert, Alain e Stella, poteva essere sicura che sarebbe stata circondata da idioti.

Le dispiace dirci qual è dunque la sua interretazione della poesia, Ange?”

Certo. Perchè no?”. Alzò il libro e indicò un verso. “Qualcuno di voi ha letto questa poesia oltre all’ultima strofa? Versi otto e nove: -benchè in fondo, il passaggio della gente le avesse davvero segnate, più o meno lo stesso”- Qualcun altro ha letto quella parte? Non è che fosse una meno battuta dell’altra. Erano battute allo stesso modo”.

Allora perchè la voce narrante ne definisce una meno battuta, nell’ultima strofa?”, le chiese la professoressa. “Può spiegarlo?”

Lo spiego io”. Una voce maschile intervenne dall’altra parte della stanza. Angelica girò la testa e guardò il tipo seduto nell’angolo in fondo alla classe. L’aveva già visto, ma non gli aveva mai prestato attenzione alcuna. Aveva capelli castani, striati di biondo d’orato, un piercing al sopracciglio, delle unghie punk smaltate di nero e tatuaggi sulle mani.

Vuole spiegarlo lei, Axel?”, chiese la professoressa. “Ci dica dunque. Mi fa piacere sentirla finalmente parlare in classe”.

Sono d’accordo con Ange su questo punto. Non posso tenere la bocca chiusa davanti a tanta stupidità”.

Axel. Così si chiamava, dunque. Sembrava stargli bene. Un nome strano. Un tizio strano.

Che cosa trova tanto stupido?”

Con Axel, la professoressa sembrava meno irritata di quanto non fosse con lei. In classe la professoressa dava sempre maggiore attenzione ai ragazzi, preferendoli alle ragazze. In questo caso però Angelica non gliene faceva una colpa. Ora che lo guardava, si rese conto per la prima volta di quanto Axel fosse attraente. Uno con piercing, tatuaggi, capelli punk sparati in testa che leggeva poesie e diceva in faccia alle persone che erano degli stupidi? Il suo tipo. Senza dubbio.

E’ ovvio. Questa poesia si divide in due parti. Le prime quattro strofe riguardano l’evento effettivo. Nella quinta il narratore ci illustra come racconterà l’evento in futuro. Ma lui è un narratore inaffidabile. Come dice Ange, nei versi otto e nove afferma che le strade sono uguali. Nessuna delle due è più o meno battuta. Nell’ultima strofa però dice che in futuro quando parlerà di questo momento, mentirà e dirà che una era meno battuta dell’altra. Da ragazzo ha compiuto una scelta del tutto arbitraria tra la strada a destra e quella a sinistra, ma in futuro farà apparire quella scelta voluta, e non arbitraria. Darà a questa scelta un significato he al momento non possedeva. Non è un eroe. E’ solo un vecchio che mente alla generazione più giovane”.

Non c’è una strada meno battuta”, intervenne Ange. “Si tratta di una finzione che serve a spiegare perchè sia andato a destra invece che a sinistra. Dobbiamo credere che le nostre scelte abbiano un motivo, se vogliamo che la nostra vita abbia un significato. Questa non è una poesia ispiratrice. E’ spaventosa e deprimente”.

Giusto”, concordò Axel. “Ecco perchè mi piace”.

Angelica si voltò e gli sorrise, mimando un grazie con le labbra. Lui le rispose con un’alzata di spalle indifferente, come a dire – figurati-.

Quando finalmente la lezione terminò, angelica prese lo zainetto dal pavimento e ci infilò dentro il suo libro. Vide dei piedi davanti ai suoi. Un biglietto con il suo nome le comparve davanti al viso. Alzò gli occhi e vide Axel di fronte a lei.

E’ un biglietto molto importante”, disse lui.”Che ti cambierà la vita. Leggilo a tuo rischio e pericolo”.

Certo che sei strano, Axel. Lo sai, vero?”

Stai flirtando con me, Ange? E’ la prima volta che parliamo e sono molto timido, le ragazze mi spaventano. Probabilmente sono ancora vergine”.

Lo guardò sollevando un sopracciglio. Si era esercitata davanti allo specchio.”Probabilmente? Non lo sai, se sei ancora vergine o meno?”.

Non mi sono mai chiesto se lo sia o no. E’ una domanda molto personale e non mi conosco abbastanza bene per sollevarla”.

Adesso apro il biglietto”.

Vorrei che ci ripensassi”, ridadì Axel.

Potrei averne bisogno come prova nel mio processo penale contro di te”

Una buona ragioe. Aprilo”

Lei aprì il biglietto.

E’ uno squalo, Axel. E’ il disegno di uno squalo”. Sollevò il biglietto.

Allora? Non ti piacciono gli squali? A chi non piacciono, gli squali?”

Non sto dicendo che non mi piacciono gli squali. Sto dicendo che non so perchè mi hai dato un disegno di uno squalo”.

Me l’ha chiesto lo squalo”.

Perchè il tuo squalo ti ha chiesto di darmi un suo disegno?”

Perchè pensa che tu sia bella, intelligente, e vuole il tuo numero di telefono”.

Angelica studiò lo squalo. Era uno squalo fatto bene quasi come avrebbe potuto disegnarlo lei. Per il bene di Axel, sperò che non si stesse specializzando in arte. Eppure, era uno squalo bello, con delle pinne incredibilmente grosse. Gli aveva fatto persino una cresta fucsia.

Ripiegò il foglietto e lo porse ad Axel.

Per favore, d allo squalo che mi dispiace. Non sono disponibile”. Si stupì di quanto e costasse costringersi a dire quelle parole.

Gli occhi di Axel si oscurarono, e lei vide l dolore e la delusione per un secondo dietro quell’adorabile maschera di arroganza maschile.

Forse tu e lo squalo potete essere amici?”

Non ho mai fatto amicizia con uno squalo. Mi morderà?”

Se glielo chiedi in modo gentile”.

Vale la pena provare. Un pranzo da squali?”

Pranzo da squali”.

Per tutto il tragitto fino alla mensa parlarono di quanto non riuscissero a credere che la professoressa fosse così ottusa rispetto a la strada che non presi di Frost.

Angelica

Un appuntamento.

Un vero appuntamento.

Un banalissimo appuntamento.

Cena.

Prepararsi.

Truccarsi.

Finalmente, all’età di diciotto anni, Angelica stava andando al primo appuntamento galante della sua vita.

Con il suo professore.

Okay, va bene, forse non era un appuntamento normale. Però lei aveva un abito nuovo, un vestito bianco, e la villa di Alain sarebbe stata tutta per loro, perchè il re non era nel suo castello, quella settimana. Somigliava abbastanza ad un appuntamento vero. Rupert le aveva persino promesso che non avrebbe indossato il suo camice, ma il completo che a lei piaceva tanto. Dopo averle fatto quella promessa, aveva mormorato qualcosa di criptico sul quale lei era stata a rimuginare tutto il giorno.

Stasera solo uno di noi avrà il collare, e giuro che non sarò io”.

La sala da pranzo di Alain era illuminata da candele e dalle fiamme guizzanti del camino. C’era Rupert. C’era del cibo: ma l’unica cosa che lei riusciva a vedere era la scatola bianca accanto al suo piatto.

Mentre lei fissava la scatola, Rupert si avvicinò alle sue spalle, le baciò la nuca e abbassò la cerniera del vestito.

Ehm.. che succede? Non mangiamo?”

Tu sì”

E.. perchè mi spogli?”

Ti voglio nuda”, disse lui, come se fosse la risposta più ovvia dell’universo, tanto che non avrebbe dovuto neppure chiederlo.

Ceniamo nudi?”

No, solo tu, gattina. Io tengo i vestiti”.

Rupert cominciò a tirarle giù le spalline del vestito ed Angelica si irrigidì.

Lui si fermò.

Qualcosa non va?”

No. Niente. Solo che mi stai facendo cenare completamente nuda”.

La cosa ti mette a disagio?”

Inverosimilmente a disagio”.

Comprensibile”, osservò lui e ricominciò ad abbassare le spalline.

Lo facciamo lo stesso?”

Angelica”, disse Rupert, facendola voltare perchè lo guardasse. “Questa sarà una serata importante per noi due. Ora sei abbastanza adulta per imparare quello che mi aspetto da te, se staremo insieme. Sarà così, se tu mi appartieni. Sarai mia proprietà. Non è una metafora, né un iperbole romantica. E’ un dato di fatto. Io posso spogliarti in qualunque momento, quando ne ho voglia. Spogliarti non dovrebbe comportare né spiegazioni, né pianificazione, come quando mi tolgo il camice. Lo faccio quando mi va, e solo per questa ragione”.

Sì Padrone”.

Stringeva le mani a pugno. Nervosa. Mentre in piedi al centro della sala da pranzo illuminata dalle candele asciava che Rupert la svestisse.

Si sentiva ridicola a stare lì, completamente nuda, con i capelli acconciati sopra la testa e i tacchi alti ai piedi.

Rupert non la toccò, se non per farle scivolare le mutandine sulle gambe.

Appoggiò il suo vestito e la biancheria sullo schienale della poltrona che si trovava vicino al caminetto. Le scostò la sedia e lei si accomodò, facendo una smorfia quando la pelle nuda venne a contatto con il legno freddo.

Rupert prese la scatola bianca e gliela mise in mano.

Cos’è?”, gli chiese, guardando l’elegante pacchetto bianco e nero.

Aprila”.

Lei slacciò con cura il nastro nero e strappò la carta bianca. Sollevò il coperchio e guardò l’oggetto al suo interno. Dunque Alain non scherzava. Non esagerava. Non aveva cercato di prenderla in giro l’anno prima, nella loro prima uscita in Lamborghini.

Ti piace?”, le chiese Rupert.

Angelica rispose con un’unica parola.

Bau”.

Rupert rise e prese il collare di pelle bianca, aprendolo.

Un collare da cani?”

Un collare da schiavi. Appartieni a me sempre, indipendentemente da quello che stiamo facendo. Quando ti metto il collare, saprai che devi darmi la tua totale obbedienza, e la tua completa attenzione. Quando hai il collare devi chiamarmi esclusivamente Padrone”.

E’ bianco”. Alzò lo sguardo verso di lui.

Mi chiedi perchè”.

Lo sai, indossare un collare da cani.. da schiavi”, si corresse, “è un po’ umiliante”.

Ed è per questo che voglio che tu lo indossi”.

Alain

“Voglio essere il suo migliore amico”, aggiunse.

Angelica rivolse un gran sorriso alla schiena di Alain che se ne andava.

“Non abbassare ancora la guardia. Non ha finito”, l’avvertì Rupert.

Aveva ragione. Giunto alla porta, Alain si girò di nuovo suoi tacchi e tornò verso di lei. La guardò dritta negli occhi. Un istante prima, aveva l’espressione galante e malandrina, come se fosse uscito da un romanzo rosa. Ora non più. Le sembrava pericolosamente serio.

“Un avvertimento”, l’ammonì Alain guardando lei, e solo lei. “Il tuo professore è un lupo. Lo imparerai alla fine, e lo imparerai nel modo in cui l’ho imparato io”.

“Come?”

“Nel modo più duro”.

“Alain, ora basta”. Rupert non scherzava più. E nemmeno Alain.

“Dille chi sei, mon ami”, lo incitò Alain, senza distogliere gli occhi dal viso di Angelica.

“Forse hai bevuto troppo stasera, oppure non abbastanza”

Alain fece un largo sorriso, ma  Angelica non vide allegria nei suoi occhi.

“Non basta mai”. Chinò la testa verso di lei, girò nuovamente i tacchi e lasciò la stanza, stavolta senza fischiare. Mentre se ne andava, lei udì l’incedere militare degli stivali che riecheggiavano sul pavimento.

Rupert espirò come se avesse trattenuto il respiro per tutta la conversazione.
“Angelica, consentimi di finire di scusarmi…”

“Che cosa intendeva dicendo che il mio professore è un lupo?”, le domandò lei, voltandosi a guardarlo.

Lui non battè ciglio,  non arrossì, non rise e non obbiettò.

Ma non rispose neppure alla domanda.

Alain

Rupert avvicinò la bocca all’orecchio di Alain.

Te l’avevo detto”, sussurrò.

Posso averla?”, gli chiese Alain.

Rupert rispose qualcosa in francese, e al suono di quelle parole Alain sorrise ancor di più.

Che ha detto?”, chiese lei al francese.

Mi ha detto… Aspetta il tuo turno”.

Angelica guardò Rupert, che si limitò a fare spallucce, come se Alain le avesse mentito. Ma lei sapeva che non era così.

Non apprezza la mia traduzione”.

Dovrebbe imparare la lingua”, gli fece notare Rupert.

Alain annuì, concorde.

Ehi voi!”, esclamò Angelica agitando le mani. “Sono ancora qui! Vi sento che state parlando di me, voi due. E tu, ti vedo che ridacchi!”. Piantò un dito al centro del petto di Rupert.

Lui le rivolse uno sguardo offeso.

I professori non ridacchiano”.

Tu che hai da guardare?”, chiese ad Alain, che sembrava la stesse spogliando con gli occhi.

Piena di spirito, questa qui”, disse Alain rivolgendosi a Rupert.

Sì, è piena di spirto, ma non è per niente santa”, concordò Rupert.

Alain rivolse nuovamente la sua attenzione ad Angelica. “Perchè hai i vestiti addosso?”

Dovrei togliermeli?”

Non ho mai sentito una domanda più stupida in vita mia”, rispose lui con un breve sospiro molto francese. Molto disgustato. “Non dovevi averli fin dal principio.”

Capisco”, disse Angelica. “Certo. Saresti un principe azzurro, se il principe azzurro non fosse azzurro”.

E se non fosse un principe, ma un re”. Alain la guardò tutta, percorrendole il copro con gli occhi.

Quello sguardo famelico e denudante avrebbe potuto imbarazzarla, ma aveva l’accento francese, i capelli di Tom Hiddlestn e il potere di infastidire Rupert. Aveva guadagnato un bonus per provarci.

Potrei per fino perdere l’orgoglio dentro di te”, le sussurrò infene Alain.

E BUONANOTTE”. Rupert afferrò il francese per la nuca.

Alain fremette, come se quel gesto avesse un effetto eccitante su di lui, esattamente l’opposto di ciò che voleva Rupert.

Non posso proprio portarti da nessuna parte. Torna in ufficio. Arrivo tra poco”.

Devo andare?”

In realtà, no”, s’intromise Angelica.

In realta, sì”. Rupert lasciò andare Alain, che le rivolse un sorriso come per scusarsi.

Je suis désolé, ma belle. Devo andare. Se stanotte hai bisogno di me, mi vuoi o mi desideri, sono in ufficio. Sai dove trovarmi”.

In ufficio”.

Bello comodo. Se non sono lì, sarò dentro ad una bottiglia di Pinot. Voglio farlo ubriacare bene, il professore, stanotte”.

Penso che ci sia quasi”, osservò Angelica.

Non aveva mai visto Rupert così giocoso. Avrebbe dovuto farlo ubriacare più spesso.

Si è appena riscaldato”, Alain le prese la mano e stavolta le baciò il dorso, invece che annusarle le punta delle dita.

Stai sicura che ti lascio del tutto contro la mia volontà e con la convinzione più assoluta che ci rivedremo prima o poi.”

E’ stato bello conoscerti”, disse lei, abbastanza sicura che quel bello fosse la parola meno adatta da utilizzare.

Ed è stato un piacere conoscerti, finalmente”, replicò Alain. “Non vedo l’ora che tu faccia la conoscenza del mio soffitto”. Si girò sugli stivali e si diresse di nuovo verso la porta, sempre fischiettando.

Alain

Appena uscito dal bar, inciampò in qualcosa sul pavimento. Si chinò incuriosito. Scarpe. Un paio di scarpe. Le raccolse. Vernice bianca, tacchi a spillo… un quarantuno.

L’ultima volta che le aveva viste, erano ai piedi di Ana Jhonson.

Alain le osservò e si chiese come e per quale motivo fossero finite nel corridoio. Ana riusciva a fare quasi tutto con i tachi alti. L’aveva vista indossarli mentre sovrastava i masochisti più ardenti. Li aveva battuti, frustati, picchiati, presi a calci… con i tacchi era capace di stare in piedi sul collo di un uomo, di camminargli sulla schiena ferita, di stare in equilibrio su una gamba mentre l’altro piede veniva adorato.

C’era solo un’attività che non riusciva a fare con i tacchi alti: correre.

Portò le scarpe fino al piano sotterraneo, dove lui e alcuni degli altri VIP avevano i loro dungeon privati. Si fermò di fronte all’ultima porta a sinistra, ma non bussò prima di entrare.

Un uomo moro e alto, assorto nei suoi pensieri, era i piedi accanto al letto. Aveva le braccia conserte e la fronte corrugata.

“Non ti hanno insegnato a bussare?”.

Rupert distese le braccia e appoggiò una spalla alla colonnina del baldacchino.

Alain irrigidì la mascella.

“Sì, mi sembra di averlo sentito a lezione, ma non stavo attento”. Entrò nella stanza. Nessun dungeon al Club rispecchiava il concetto di minimalismo quanto quello di Rupert.

L’unico arredamento era un letto a baldacchino in ferro battuto sistemato come un’alcova una croce di ant’Andre in bella vista e un unico baule pieno degli strumenti di tortura più svariati. Il lato sadico di Rupert era leggenda al  Club e in generale in tutto il mondo sotterraneo.

Non aveva bisogno di migliaia di fruste e scudisci o di dozzine di bastoni, sferze e trastulli. Rupert era un personaggio, uno che riusciva a piegare uno schiavo con una parola, uno sguardo, un’intuizione penetrante, e con la sua calma, quel freddo controllo che induceva anche l’essere più forte del mondo a tremare ai suoi piedi. Prima li soggiogava con il bell’aspetto, e poi con l’animale che si annidava nel suo cuore.

“Ti ho portato un regalo”.

Alain sollevò le scarpe tenendole per i cinturini. Rupert inarcò un sopracciglio.

“Non mi sembrano della mia taglia, no?”

“Della tua pupilla”. Alain le lasciò cadere sul letto. “Come sai. Ci sarai passato davanti, uscendo dal bar”.

Alain si fece sfuggire una breve, mesta risata.

“E pensare che mi era sembrato di sentirti dire che se aveva un po’ di pietà nel cuore non doveva abbandonarti per il suo Leonardo”.

Rupert non rispose. Si limitò a fissare Alain con i suoi occhi d’acciaio.

L’altro resistette all’istinto di sorridere. Un sentimento così sconveniente. Lo tenne per sé finchè gli riuscì. Poi girò i tacchi e si defilò, citando una vecchia poesia mentre lasciava Rupert nella sua segreta in compagnia delle scarpe di Ana, appoggiate sul letto.

“Vidi bianchi principi e pallidi re,

scialbi guerrieri smunti, tutti del

color della morte.

E gridavano: la bella dama senza pietà

t’ha reso schiavo della sua volontà”

Ana

Ricordava di essere rimasta in piedi di là dalla staccionata, con Rupert dall’altra parte. Discussero per qualche minuto, e dal modo in cui lui parlava, dal modo in cui la guardava, aveva capito di non essere la sola a ricordare quel sogno.

Dopo quel giorno però…”. Ana sospirò leggermente. “Niente. Niente per mesi e mesi. Niente parlare, niente toccarsi, niente. Io e Rupert diventammo nuovamente due estranei. Non fu terribile. Non me ne restai in casa a guardare fuori dalla finestra per un anno. Andavo a scuola, prendevo buoni voti, mi facevo il culo per portare a termine il lavoro per la comunità. Non potevo prendere la patente finchè non avessi compiuto diciotto anni, ma la segretaria di Rupert, Annabelle, mi scarrozzava in giro in macchina. Me la passavo bene. Non era una vita da sballo, ma sopravvissi”.

Pascal si rigirò e le si avvicinò. Le prese le ginocchia tra le mani e si mise le gambe di lei intorno alla vita, in modo che fossero faccia a faccia. Lei si rilassò tra le sue braccia e appoggiò il mento sulla sua spalla.

Sono felice che tu sia sopravvissuta”, mormorò. “Altrimenti non saresti qui”.

Oh, sono sopravvissuta, sì. E la cosa divertente è che più avanti nella vita, dopo essere diventata una scrittrice, ho capito cosa aveva fatto Rupert, e perchè”.

Ovvero?”

E’ un trucco di chi scrive narrativa”, spiegò. “Immagini quale sia la paura più grande del tuo protagonista, poi fai in modo che si trovi ad affrontare proprio quella paura”.

E’ quello che ti fece fare?”

Perderlo, perdere il suo amore era la mia paura più grande. E lui ha fatto in modo che affrontassi questa cosa. L’ho affrontata, l’ho superata. E in fin dei conti..”.

Ana si interrupe per baciare il collo di Pascal, per la semplice ragione che doveva essere baciato.

In fin dei conti, quel tempo da sola mi fece diventare quella che Rupert aveva sempre detto che ero”.

Ovvero?”

Ana si tirò indietro e rivolse a Pascal il suo sorriso più malizioso. Alzò un dito a indicare che aspettasse. Pascal sollevò un sopracciglio. Lei scivolò via dalla stretta delle sue braccia, scese dal letto e prese qualcosa dalla valigia.

Il suo frustino rosso da equitazione.

Lo tenne davanti a sé, con la punta rivolta al centro del petto di Pascal.

PERICOLOSA”, annunciò lei.

Pascal sorrise, con le labbra appena aperte e il respiro che si faceva più rapido.

Vedi”, continuò lei, lasciando che la punta del frustino si appoggiasse nell’incavo del collo di lui, “quando affronti la tua paura più grande e la superi, ti resta forse qualcosa di cui aver paura?”

Pascal si leccò le labbra. Il suo petto di alza e si abbassava.

Rispondimi”. Ana fece scorrere il frustino sotto il mento di lui e lo costrinse a sollevare la testa di qualche centimetro.

Niente”, replicò Pascal.

Il mio timore più grande era vivere senza Rupert e ci sono riuscita. Non ne avevo più paura, e non avevo più bisogno di nessuno. Volevo lui, ma non avevo bisogno di lui. Lui però aveva bisogno di me. “

Ci credo”, osservò lui.

Ana lo guardò.

Adesso, Pascal, dimmi di cosa hai paura”.

Ho paura che questa sarà la nostra unica notte insieme, e che vivrò il resto dei miei giorni senza più incontrare una donna come te”.

Non posso prometterti che passeremo un’altra notte insieme, ma posso garantirti questo: Non incontrerai un altra donna come me”.

Non aggiunse però che non incontrare un’altra donna come lei fosse probabilmente una cosa buona.

Lui non sembrava pensarlo, comunque. Un sorriso sexy e allusivo gli attraversò le labbra.

Dimostramelo”
Dimostrarlo?

Be’ se proprio insisteva…

Ana afferrò Pascal dietro il collo, costringendolo a guardarla in faccia.

Mi farai male?”, le chiese, con la voce che conteneva in ugual misura paura e trepidazione.

Non stanotte”, disse lei, ricordando la notte in cui aveva posto a Rupert praticamente la stessa domanda e lui le aveva dato quella stessa risposta. “Stanotte è solo per piacere”.

Baciò Pascal con tutta la passione brutale che solo chi è ferito possiede e vuole disperatamente guarire. Lo baciò come se le labbra di lui contenessero il significato della vita e perciò, se lei l’avesse baciato con sufficiente intensità e dolcezza, e l’avesse fatto abastanza a lungo, questa verità sarebbe passata a lei, sulle labbra, e lei così avrebbe potuto afferarla tra i denti e ingoiarla tutta intera.

Ana fece stendere Pascal di schiena, senza mai interrompere il bacio. Lui si mosse per cingerla con le braccia, ma lei gli prese i polsi e li spinse sul letto, sopra alla sua testa.

Stai lì”, gli ordinò. “Non ti muovere. Voglio farti venire”.

Sono tutto tuo,Ana”.

Adorava il modo in cui pronunciava il suo nome.

Dovrei farmi chiamare “Padrona””.

Vuoi essere la mia Padrona?”

Ti piacerebbe ?”

Se ti appartenessi, se fossi tua proprietà, realizzerei uno dei miei più grandi sogni. Ma dato che non ti appartengo, ti chiamerò Ana”. Le parole di Pascal la mettevano in imbarazzo.

Che sia Ana, allora”, ripetè lei. “Ora fai il bravo e non venire finchè non te lo dico io”.

Lui annuì e fissò gli occhi al soffitto, mentre Ana gli allargava le ginocchia e si sistemava nel mezzo. Si leccò la punta di un dito e lentamente glielo mise dentro. Andò in profondità, ma non troppo. Si fermò quando Pascal ansimò di piacere.

Ti piace?”

Parfait”. Lui teneva ancora gli occhi al soffitto, come se fosse troppo imbarazzato per guardarla mentre lei lo toccava in modo così intimo.

Bene”. Tirò fuori il dito dalla stretta fessura e prese il frustino. Lo fece schioccare una volta prima di afferrarlo al centro. Con attenzione infilò dentro di lui l’asticella del manico per qualche centimetro. “I frustini non sono fatti solo per far male”.

Pascal non disse nulla. Sembrava che avesse perso la favella. Ana glielo prese in mano e accarezzò la sua incredibile erezione. Poi abassò la testa e leccò dalla base alla punta, poi di nuovo per tutta la lunghezza del pene.

Pascal gemette e strinse le lenzuola. On c’era niente che le piacesse di più che far contorcere un bell’uomo.

Sei mai stato con una donna che ti inculava e ti succhiava il cazzo allo stesso tempo?”, gli chiese interrompendosi.

Sì, se conti anche le dita”.

Lo faccio io adesso. Ma non preoccuparti, non ho ancora finto con la mia dimostrazione”.

Lo succhiò ancora, cacciandoselo in bocca fino in fondo. Forte, più forte, così forte da farlo ansimare.

Sei pronto a venire per me?”, gli domandò in francese. Era una delle prime frasi che le aveva insegnato Alain.

Oui”.

Non ancora”, disse lei, in un sussurro. “Non..ancora…”.

Continuò a leccarlo per il proprio piacere, godendo di quella pelle vellutata, quel sapore di terra, la pienezza di Pascal nella bocca. Dolcemente, estrasse il manico del frustino da dentro di lui. Poi si alzò, e glielo prese in mano e gli massaggiò il pene con delle carezze prolungate ed esperte.

Vai lì per me”, gli ordinò.”Vai proprio sull’orlo del tuo orgasmo e restaci. Ci sei?”

Pascal annuì e strinse gli occhi.

Resta lì sul bordo, senti quanto è tagliente quel bordo, Pascal”.

Fa male”, ansimò lui stringendo i denti.

Lo so. Talvolta il piacere può fare più male del dolore. Tra 4 secondi ti farò venire”.

Allungò un braccio e prese il bicchiere vuoto di vino dal comodino.

Un.. duex… trois.. quatre”, disse lei, e gli mise il bicchiere sopra alla punta. Lui venne dentro, ricoprendo i lati con il suo seme e contorcendosi per l’intensità dell’orgasmo.

Dopo che ebbe raccolto ogni goccia del suo sperma, Ana alzò il bicchiere facendolo illuminare dal fuoco del camino.

Pascal aprì gli occhi e si appoggiò sui gomiti, guardandola.

Lei prese la bottiglia aperta di vino e ne versò un dito nel bicchiere. Lo fece girare, lasciando che bagnasse i lati del bicchiere.

I due frutti della tua fatica in uno stesso calice”, esclamò. “Santè”.

Si portò il bicchiere alla labbra.

Ana…”, ansimando, Pascal disse il suo nome.

In tre grossi sorsi, lei bevve tutto il vino.

La mia annata preferita”, osservò.

Pascal si tirò su e la guardò, mentre il suo petto si alzava e si abbassava rapido.

Hai vinto tu”, mormorò.

Lo sapevo”, replicò lei e ripose il bicchiere. “Conosco anche un giochetto simpatico con il whisky, ma non bevo più superalcolici. Edward non me lo permette”.

Senza dire una parola, Pascal la fece sdraiare supina e la baciò con una passione incredibile, da togliere il respiro. La sua lingua s’immerse nella bocca di Ana come se cercasse il suo stesso sapore sulla lingua di lei.

Sei periolosa”, le sussurrò Pascal sfiorandole le labbra. “Puoi fare in modo che un uomo voglia cose che non può avere”.

Pascal fece un respiro tremante, come se cercasse di calmarsi. Si stccò da lei e si distese di nuovo sul suo lato del letto.

Parlarmi, prima che ti leghi al letto e non permetta a nessuno dei due di allontanarci da qui”, l’avvertì Pascal.

Ana rise e si stese di fianco per guardarlo.

Dovrei raccontarti di quando ho conosciuto tuo padre”, annunciò.

Quando l’ho conosciuto davvero”.

Com’era?”

Molto diverso da te”, ridacchiò lei.

Tanto brutto?”

Per niente. Quella casa in cui vagavo mentre c’era un’orgia in corso, quella era casa di tuo padre”.

Sinceramente, posso dire di non avere mai partecipato a un’orgia. Anche se il giorno in cui vendemmiamo e pigiamo l’uva ci si avvicina”.

Ana sorrise. Le sarebbe piaciuto partecipare alla vendemmia con Pascal. Forse ci sarebbe dovuta tornare di nascosto. Se la coscienza glielo permetteva.

Sarai felice di sentire che quando ho conosciuto tuo padre c’erano anche una o due bottiglie di questo vino, forse persino quattro”.

Ha buon gusto in fatto di vino e di donne”, osservò Pascal sorridendo.

Dove eravate?”

Non indovinerai mai, considerando che c’era tuo padre. Ma la prima volta che io e Alain abbiamo parlato, tra tutti i posti possibili, è stato in laboratorio”.

Alain

La paura era stata la parte che aveva preferito. La paura che l’aveva seguito come i suoi passi nei boschi in cui era scappato in cerca di rifugio e dove aveva trovato molto più della salvezza. Quei passi… e come aveva cominciato, il suo cuore, a battere sempre più forte mentre si facevano più vicini, più incalzanti. Aveva avuto troppa paura per continuare a fuggire, troppa paura che non l’avrebbero preso. Era scappato perchè voleva essere preso. Era quella l’unica ragione.

Alain si ricordò dell’aria che aveva inspirato di colpo mentre una mano dalla forza brutale gli si era serrata intorno al collo… la corteccia del tronco dell’albero che gli graffiava la schiena… l’odore dei sempre verdi intorno a lui, così potente che anche dopo trent’anni si eccitava non appena sentiva il profumo di un pino. E quando poi si era svegliato a terra, nella foresta, un nuovo profumo ricopriva la sua pelle: quello del sangue, il suo, e dell’inverno.

Dopo tutto quel tempo non era ancora riuscito a separare il sesso dalla paura. Nel suo cuore, le due cose erano collegate in modo inestricabile, eterno e impenitente. Quel giorno Alain aveva scoperto il potere della paura, la sua forza e anche il piacere che gli faceva provare, e adesso, trent’anni dopo, la paura era diventata il suo cavallo di battaglia.

Purtroppo, in quel momento Emma non aveva paura.

Ma lui poteva cambiare le cose.

Alain la guardò con la coda dell’occhio mentre sorseggiava il vino. Era in piedi accanto a Frank e al giovane Klaus, e sorrideva un po’ all’uno, un po’ all’altro mentre i due la deliziavano con la storia d come si fossero incontrati grazie ad Ana. In cambio di una giornata senza sentir nominare la favola Ana Jhonson, Alain avrebbe ammassato metà della sua fortuna in mezzo a Piazza Venezia, le avrebbe dato fuoco e sarebbe rimasto a osservarla mentre si riduceva in cenere. Magari fosse stto così facile, distruggere il mostro che aveva creato.

No, si corresse. Il mostro che loro avevano creato.

Emma lo guardò e gli sorrise di nascosto, un sorriso che non lasciava spazio all’interpretazione. Ma lui avrebbe pazientato, sarebbe rimasto in attesa e le avrebbe fatto credere di non essere dell’umore giusto. Avrebbe fatto crescere la trepidazione di lei, prima di sostituirla con la paura. E come la portava bene, Emma, la paura, come riluceva nei suoi occhi nocciola, come fremeva lungo la sua pelle color latte, e come le restava acquattata in gola, proprio come l’urlo che le aveva fatto rimangiare con una mano…

Alain sentì n formicolio all’inguine, e il suo cuore cominciò a palpitare. Appoggiò il calice di vino e si spostò dal bar alla sala sul retro, per proseguire nei corridoi del Quarto canto. Appena uscito dal bar, inciampò in qualcosa sul pavimento. Si chinò incuriosito. Scarpe. Un paio di scarpe. Le raccolse. Vernice bianca, tacchi a spillo… un quarantuno.

L’ultima volta che le aveva viste, erano ai piedi di Ana Jhonson.

Alain le osservò e si chiese come e per quale motivo fossero finite nel corridoio. Ana riusciva a fare quasi tutto con i tachi alti. L’aveva vista indossarli mentre sovrastava i masochisti più ardenti. Li aveva battuti, frustati, picchiati, presi a calci… con i tacchi era capace di stare in piedi sul collo di un uomo, di camminargli sulla schiena ferita, di stare in equilibrio su una gamba mentre l’altro piede veniva adorato.

C’era solo un’attività che non riusciva a fare con i tacchi alti: correre.

Portò le scarpe fino al piano sotterraneo, dove lui e alcuni degli altri VIP avevano i loro dungeon privati. Si fermò di fronte all’ultima porta a sinistra, ma non bussò prima di entrare.

Un uomo moro e alto, assorto nei suoi pensieri, era i piedi accanto al letto. Aveva le braccia conserte e la fronte corrugata.

“Non ti hanno insegnato a bussare?”.

Rupert distese le braccia e appoggiò una spalla alla colonnina del baldacchino.

Alain irrigidì la mascella.

“Sì, mi sembra di averlo sentito a lezione, ma non stavo attento”. Entrò nella stanza. Nessun dungeon al Canto rispecchiava il concetto di minimalismo quanto quello di Rupert.

L’unico arredamento era un letto a baldacchino in ferro battuto sistemato come un’alcova una croce di ant’Andre in bella vista e un unico baule pieno degli strumenti di tortura più svariati. Il lato sadico di Rupert era leggenda al Quarto Canto e in generale in tutto il mondo sotteraneo.

Non aveva bisogno di migliaia di fruste e scudisci o di dozzine di bastoni, sferze e trastulli. Rupert era un personaggio, uno che riusciva a piegare uno schiavo con una parola, uno sguardo, un’intuizione penetrante, e con la sua calma, quel freddo controllo che induceva anche l’essere più forte del mondo a tremare ai suoi piedi. Prima li soggiogava con il bell’aspetto, e poi con l’animale che si annidava nel suo cuore.

“Ti ho portato un regalo”.

Alain sollevò le scarpe tenendole per i cinturini. Rupert inarcò un sopracciglio.

“Non mi sembrano della mia taglia, no?”

“Della tua pupilla”. Alain le lasciò cadere sul letto. “Come sai. Ci sarai passato davanti, uscendo dal bar”.

Alain si fece sfuggire una breve, mesta risata.

“E pensare che mi era sembrato di sentirti dire che se aveva un po’ di pietà nel cuore non doveva abbandonarti per il suo Claudio”.

Rupert non rispose. Si limitò a fissare Alain con i suoi occhi d’acciaio.

L’altro resistette all’istinto di sorridere. Un sentimento così sconveniente. Lo tenne per sé finchè gli riuscì. Poi girò i tacchi e si defilò, citando una vecchia poesia mentre lasciava Rupert nella sua segreta in compagnia delle scarpe di Ana, appoggiate sul letto.

“Vidi bianchi principi e pallidi re,

scialbi guerrieri smunti, tutti del

color della morte.

E gridavano: la bella dama senza pietà

t’ha reso schiavo della sua volontà”

First meeting

Nelle ultime tre ore aveva corso come una matta in preda dall’ira, ma quando giunse davanti al palazzo di suo padre, la paura minacciò di prendere il posto della rabbia. L’edificio era al limite dell’agibilità. La gente per strada le passava davanti lanciandole sguardi sospettosi. Ma non intendeva arrendersi alle sue paure. Suonò il campanello dell’appartamento del padre. Quando usì la sua voce, le sembrò quasi compiaciutp.

Le aprì il portone e lei salì quattro fetide rampe di scale fino al suo appartamento. Lui aprì la porta e prima che potesse dirgli ciao, la prese tra le braccia e le strapazzò di baci.

Che bello vederti, papà”, ansimò lei, cercando di respirare.

Che diamine, non riesco a credere che tu sia venuta”. Si tirò indietro a guardarla. “Chi sei? E che hai fatto a mia figlia?”.

Sono tua figlia”.

Non sembri affatto la mia bambina . Sembri una ventenne, adesso. Quando è successo?”

Sono solo i vestiti e il trucco”.

Una super modella”.

Smettila”, ringhiò lei alzando gli occhi al cielo. “Sono troppo bassa”.

E troppo carina. Non hai preso da me “. alla fine la lasciò andare, e lei diede un occhiata all’appartamento. Un piccolo monolocale che sarebbe stato carino se qualcuno l’avesse pulito e ci avesse messo dei mobili decenti. Era evidente che suo padre non aveva il dono per l’arredamento d’interni.

So che non c’è molto da guardare”, si scusò entrando nel cucinotto. “Sapevo che non ci sarei rimasto a lungo. Ma dato che sei qui togliti la giacca. Mettiti comoda”.

Dubitava di poter davvero stare comoda in quel posto. Pile di piatti sporchi erano ammucchiate disordinatamente in tutta la casa, i vestiti erano sparsi sul pavimento. C’era puzza di fumo e cibo scaduto. Si tolse la giacca e la mise sulla spalliera di una sedia che le sembrò appena decente, rispetto al resto.

Allora… sai cosa ti succederà?”, gli chiese.

Vado in prigione”, rispose, e prese una birra dal frigorifero. “Ne vuoi una?”

Sai che ho sedici anni, vero?”

Non guidi, no?”

No”, rispose lei e prese la birra. Le era capitato di bere, ma mai davanti ai suoi genitori. Il vino della comunione non contava. Bevve un sorso, e trovò la birra disgustosa e fantastica in uguale misura.

Come va con i lavori sociali?”, le domandò il padre, e lei udì una nota di amarezza nella voce.

Non va male. Mi occupo della segreteria di alcune associazioni di benificenza. Vado a dare una mano al dormitorio dei senza tetto. Quest’estate ho fatto un campo estivo. E’ stato divertente”.

Bel lavoro, se riesci a fartelo dare. Sembra meglio del carcere”.

Lei fece una smorfia. “Mi dispiace, papà. Vorrei…”.

che cosa? Che cosa vorresti?”

Vorrei che tu non ci finissi, là dentro”.

Già, beh , siamo in due”.

Si scolò la birra in tutta fretta. Suo padre aveva una capacità innaturale di tollerare l’alcol, qualcosa che lui stesso definiva “Effetto scientifico”.

Sto ancora cercando di capire come hai fatto a cavartela così facilmente. Voglio dire, la cosa mmi entusiasma. Non voglio certo che la mia bambina finisca in riformatorio, eppure, come hai fatto? Lavori socialmente utili per cinque reati?”

Ho trovato un buon giudice. E un bravo avvocato”.

Dove l’hai trovato l’avvocato?”

Me l’ha pagato la scuola. Mi do da fare in laboratorio per ripagarlo”.

Buon per te allora, davvero”.

Allora hai detto che volevi andare a cena?”. Desideravaa disperatamente cambiare discorso. Sapeva che la storia dei lavoreti socialmente utili non convinceva fino in fondo il padre.

Sì. Certo. Prima però voglio chiederti una cosa”.

Sicuro? Che cosa?”

Anche io ho un avvocato. Un tipo sveglio. Tosto. Uno di quelli che è meglio non farsi nemico. In ogni modo, pensa che forse può farmi ottenere un nuovo processo”.

Un nuovo processo? Perchè?”

Un problema con le prove. Un poliziotto idiota si è sbagliato a mettere l’etichetta di una cartella, o cose del genere, non so. Ma se la sfanga e mi un nuovo processo, c’è la possibilità che non debba andare dentro”.

Non pensi che ci siano prove sufficienti contro d te?”

Se avessi un testimone che ritrattasse alcune dichiarazioni rilasciate agli agenti, potrebbe esserci possibilità”.

Angelica riuscì solo a guardare suo padre in silenzio. Lui aprì un altra birra. Lei la sua l’aveva appena assaggiata.

Vuoi che racconti delle cazzate per te sul banco dei testimoni? Ho fatto una deposizione, mi spediscono dritta al riformatorio se comincio a dire in giro che ho mentito alla polizia. Sono in libertà vigilata e ho già visto abbastanza serie tv per sapere che la falsa testimonianza è un reato. Un reato grave”.

Bimba, hai sedici anni. Anche se finisci in riformatorio, ne sarai fuori a diciotto anni. Si tratta solo di un anno e mezzo. Per me si parla di dieci anni o più. Ange”.

Non ho intenzione di mentire per te”.

Dieci anni. Quattordici anni. Non te ne importa? Non t’ importa di tuo padre?”
“E per me non sarebbe solo un anno e mezzo. Questo potrebbe mandarmi a puttane la vita. Secondo te, potrò inviare domande d’iscrizione al colloge indicando come domicilio un carcere minorile? Non credo che l’università di Bologna ammetta i criminali ai suoi corsi”.

L’università di Bologna?”, fece lui ridendo. “Pensi sul serio che andrai in un’università come quella?”

Sono sveglia papà, se non te ne fossi accorto. Seguo lezioni propedeutiche all’università. Ho buoni voti. Ottengo punteggi altissimi in quegli stupidi test d’intelligenza ce ci fanno fare”.

come pensi di pagartela? Prostituendoti?”

Mai sentito parlare di borse di studio?”

Frequenti una scuola di provincia e non ti prenderanno in nessuna università”

Non ci credo. Il mio professore dice che sono intelligente, e lui è la persona più intelligente che conosca”.

Se è tanto intelligente, perchè è un professore del cazzo?”

Sei uno stronzo”.

Non sono io quella che ha tradito il padre per salvarsi il culo”.

La colpa è solo tua, cazzo”, gridò lei in risposta. “Nessuno ti ha chiesto di fare il criminale. Mamma fa due lavori seri. Perchè tu non te ne puoi trovare uno?”

Vuoi che faccia due lavori come tua madre e diventi un poveraccio frigido come lei?”

Sempre meglio che essere uno sbandato pezzo di merda che lascia andare dentro la figlia al posto suo, no?”

La mano di suo padre guizzò fuori e la schiaffeggiò con una rapidità tale da farla sussultare, più per la sorpresa che per il dolore.

Lo guardava confusa, a occhi spalancati. “Spero che tu marcisca in prigione”, sibilò.

Il padre alzò la mano per schiaffeggiarla di nuovo. Lei si abbassò e cercò di oltrepassarlo. Lui la prese e la sbattè di peso contro il frigorifero. Lei lo respinse con tutta la sua forza e riuscì a sfuggirgli, anche se lui cercava di acchiapparla.

Scappò di corsa alla porta e scese le 4 rampe di scale più in fretta possibile, continuando ancora a sentire i passi di suo padre che la inseguivano. Arrivò in strada e ricominciò a correre. Girò l’angolo e trovò l’ingresso della metropolitana. Quando fece per prendere i soldi, si rese conto che con orrore che aveva lasciata la giacca a casa di suo padre. E tutti i suoi soldi erano nella giacca.

Porca puttana…”, sospirò. Non aveva niente. Niente tranne una stupida lista di domande per Rupert. Niente soldi. Niente chiavi. Niente biglietto del treno. Tutte le cose importanti erano nella sua giacca.

Disperata, studiò la carta della metro, sperando che le venisse in mente qualcuno, chiunque, che conoscesse in città o che potesse aiutarla. Le saltò agli occhi il nome di una strada. Via del corso, non sembrava molto lontana, tutto sommato. Quattro o cinque chilometri? Poteva arrivarci in quarantacinque minuti, se andava come una scheggia. Rupert le aveva dato quel biglietto, quel cazzo di biglietto da visita che era rimasto nella giacca, del suo amico che abitava in Via del Corso. Diceva di andarci in caso d’emergenza. Essere bloccata in città senza un soldo le sembrava un’emergenza.

Cercò di capire come orientarsi e riemerse di nuovo in strada, guardandosi intorno per accertarsi che suo padre non fosse nei paraggi e potesse vederla o inseguirla. Sembrava tutto tranquillo, cosi si avviò, camminando più in fretta possibile. Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni per riscaldarsi e cercò di non piangere. In cuor suo, aveva sempre saputo che suo padre era soltanto un delinquente, uno sbandato, un pezzo di merda; così come l’aveva chiamato lei. Ma aveva voluto crederci così tanto che le voleva bene, che sentiva la sua mancanza, che si si interessava a lei.

Un’ isolato dopo l’altro , si rimprovera di aver creduto a tutte le stronzate che le aveva rifilato lui. Voleva solo leccarle un po’ il culo per farla stare contenta, farle pensare che gli fregasse qualcosa di lei affinchè mentisse per lui.

La temperatura ebbe un brusco calo e l’aria le bruciava i polmoni e il naso. Mentre camminava, le lacrime le scendevano copiose dagli occhi. Pregò con tutto il cuore che questo amico di Rupert avesse pietà di lei e l’aiutasse a tornare a casa. Altrimenti, avrebbe preso un bicchiere di carta da un negozio e si sarebbe messa a elemosinare qualche spicciolo, come i senzatetto a cui passava davanti,rincantucciati sotto le coperte luride.

Finalmente raggiunse l’indirizzo che ricordava dal biglietto da visita. La casa in pietra bianca con finiture in ferro nero risplendeva come il sole alla luce dei lampioni.

Cavoli…”, sospirò. Casa? Quella non era una casa. Quello era un palazzo di Roma. Per cinque minuti buoni lo esaminò cercando di memorizzare tutti i dettagli. Tre piani o forse più. Da dove si trovava pensò di intravedere lastre di vetro sul tetto: forse una di quelle belle serre o verande, o come si chiamavano. La facciata della casa era bianca, ma tutte le finiture sulle finestre ad arco erano nere. Al primo piano c’era un balcone di ferro nero con della gente: uomini e donne, in abito da sera che entravano e uscivano dalla portafinestra. Si avvicinò, chiamando in rassegna il coraggio per bussare alla porta. Poi la vide. Tra le ombre sul lato della casa, individuò una Ducati nera.

Rupert?”, si chiese. Non riusciva a credere che fosse lì. Annabella le aveva detto che ra con la famiglia per il giorno dei santi e non sarebbe rientrato fino a domenica. Che cavolo ci faceva a una festa al Corso? Non lo sapeva, ma ovviamente intendeva scoprirlo.

Look at me

The escape

Qualcuno stava seguendo Ana Jhonson.

Lei ne era ignara mentre attraversava in auto le Alpi fino al cuore del Parc national suisse. Dopotutto, chi avrebbe potuto farlo? E per quale Ragione? Nessuno giù a casa sapeva perchè fosse partita, e in assoluto nessuno sapeva dove fosse andata. Teneva gli occhi sulla strada davanti a sé, senza neanche pensare di guardarsi indietro una volta.

Un disagio. Un terrore muto si era fatto largo nella sua mente e vi si era insidiato. Il sole, che l’aveva accompagnata per quasi tutta la sua esistenza, inseguiva l’auto lungo la corsa nella strada costeggiata di abeti rossi svettanti.

Ad Ana sembrava che le ombre volessero catturarla e imprigionarla. Spinse l’acceleratore e si addentrò nella foresta.

Giunse infine al termine della strada e intravide una piccola villa con il tetto in legno, nascosta tra gli abeti e i pini. Era una piccola casa a due piani in legno: sembrava uscita da un libro di favole. Avrebbe potuto abitarci un falegname dall’animo gentile, di quelli che salvano le bambine dalle grinfie del lupo cattivo. Se la casetta era parte di una fiaba, lei allora chi era? Il falegname? La bambina?

O il Lupo?

Raccolse le sue cose dall’auto e si avviò a grandi passi verso la casa. Il proprietario l’aveva avvisata che la porta non si chiudeva a chiave, ma le aveva anche garantito che sarebbe stata al sicuro. Quella parte del parco era un terreno privato. Nessuno l’avrebbe disturbata. Proprio nessuno.

L’edera ricopriva la casa dalla base fino al camino. Quando varcò la soglia, si sentì catapultata indietro di seicento anni. Guardandosi intorno fece il suo piano per la giornata. Avrebbe accesso il fuoco nell’enorme caminetto di pietra bianca. Avrebbe bevuto il tè nelle tazze di ceramica. Avrebbe dormito sotto pensanti lenzuola in un letto rustico, dai montati in legno tagliato con l’ascia.

In un momento diverso e in circostanze diverse, le sarebbe piaciuto un sacco. Ma aveva il cuore distrutto dal dolore e l’attendeva un compito difficile. E non era nella natura di Ana entusiasmarsi all’idea di dormire da sola. Portò le sue borse nella camera da letto di sopra, l’unica della casa, e si inginocchiò a terra accanto alla più piccola delle due valigie. Con attenzione, aprì di malavoglia la cerniera della borsa. Dal rivestimento di velluto estrasse una scatola d’argento, grande come un piccolo dizionario, e la tenne tra le mani tremanti.

Come il padrone di casa aveva promesso, trovò il sentiero lastricato che conduceva al lago. L’odore degli abeti la circondava, mentre percorreva il sentiero. Era aprile, ma quel profumo le faceva pensare al Natale… Astro del ciel suonata al piano, candele rosse e verdi, nastri d’argento decorazioni dorate e Babbo Natale che arriva e nasconde monete nelle scarpe di tutti i bravi bambini. Pigramente, desiderò che quella sera Babbo Natale venisse a trovarla. Avrebbe apprezzato la compagnia.

Il sentiero si allargò e lei vide davanti a sé il lago: le acque scure ma limpide, colorate d’oro dai raggi del sole che sbucava da dietro le nuvole. Restò in piedi sulla riva sabbiosa , sul bordo dell’acqua. Poteva farlo. Si preparava a quel momento da giorni, si preparava quello che avrebbe detto e a come l’avrebbe detto. Sarebbe stata forte. Per lui, l’avrebbe fatto. Poteva farlo.

Deglutì e poi inspirò in fretta.

Rupert…”. Si fermò non appena ebbe pronunciato il suo nome. Non riusciva a tirar fuori nessun altra parola. Le restavano nella gola, la soffocavano come una mano intorno al collo. Con le spalle rivolte al lago, tornò verso la casa: un po’ camminava e un po’ correva, sempre sempre stringendo al petto la scatola d’argento. Non poteva ancora lasciarla andare. Non poteva dirle addio. Mise la scatola d’argento sulla larga mensola di legno del camino e si voltò. Se l’avesse ignorata, forse sarebbe riuscita a credere che non fosse mai accaduto.

Fuori dalla casa si levò il vento.

Gli scuri traballanti, ricoperti d’edera, sbattevano contro i muri di legno. L’aria odorava di ozono: stava giungendo un temporale.

Ana accese due fuochi: uno nel grande camino di pietra e l’altro nel caminetto più piccolo, in camera da letto. Il padrone di casa le aveva lasciato il frigo e la dispensa pieni. Una premura superflua. Ormai da due settimane aveva perso l’appetito, e si sforzava di mangiare solo per allontanare le emicranie prodotte dalla fame.

Trascorse la giornata indaffarata in piccole cose. La casa era pulita, ma lavare tutti i piatti in una grande tinozza di rame e spazzare il pavimento di pietra con una scopa da strega trovata nel ripostiglio le dava un senso di utilità. Si diede da fare finchè la stanchezza non ebbe la meglio e si distese sul letto a sonnecchiare.

Ana i svegliò da un sonno agitato, senza sogni, e riempì d’acqua la vasca da bagno di porcellana decorata, con i piedini di ferro. Affondò in quel calore, sperando che la penetrasse nella pelle aiutandola a rilassarsi. Eppure, quando un’ora più tardi uscì dalla vasca con la pelle rosa e raggrinzita, si sentiva ancora tesa come un corda di violino.

Indossò una lunga camicia da notte lilla dalle spalline sottili. L’orlo le solleticava le caviglie mentre camminava, sfiorandole i piedi nudi.

Per distrarsi, restò in piedi davanti allo specchio ad acconciare e appuntarsi i capelli in un modo e in un altro: intrecciò le onde nere in un nodo basso con le ciocche che le ricadevano sul collo e le incorniciavano il volto. Quando ebbe finito, scoppiò quasi a ridere per l’effetto ottenuto. Con quella camicia da notte bianca, quasi senza trucco e i capelli pettinati a boccoli, sembrava una sposa vergine la prima notte di nozze. Una sposa di una certa età, ovviamente: il mese prima aveva compiuto trentadue anni. Eppure, quella donna allo specchio aveva un aria pudica, innocente, persino timorosa. Ana era convinta che il dolore invecchiasse le persone, ma quella sera si sentiva nuovamente adolescente: inquieta e in attesa, bramosa di qualcosa che non era in grado di nominare, ma di cui sapeva di aver bisogno. Ma cos’era? Chi era?

Gironzolò al piano inferiore e valutò l’idea di mangiare qualcosa. Invece di nutrire se stessa, alimentò il fuoco. Mentre il legno scoppiettava e bruciava, un fulmine attraversò il cielo fuori dalla finestra della cucina. Poco dopo, si udì rimbombare un tuono. In piedi avanti alla finestra, Ana osservava la notte squarciarsi. Raffiche di tuoni scossero il parco, a coppie. Tra i boati Ana udì un suono diverso. Più forte. Più chiaro. Più vicino.

Dei passi sulla pietra.

Un colpo alla porta.

Poi il silenzio.

Ana restò immobile. Non ci sarebbe dovuto essere nessuno laggiù.

Solo lei.

Il proprietario le aveva promesso l’isolamento. Le aveva detto che quella era l’unica casa nel raggio di chilometri. Tutto il terreno circostante era suo. Sarebbe stata al sicuro. Sarebbe stata sola.

Un altro colpo.

La porta d’ingresso non si chiudeva a chiave. Chiunque fosse là fuori, poteva entrare in qualsiasi momento. Da ormai due settimane le sue uniche emozioni erano dolore e tristezza. Ora provava qualcos’altro: paura.

Rupert però l’aveva addestrata fin troppo bene “ Non dimenticate l’ospitalità,alcuni, praticandola, senza sapelo hanno accolto degli angeli”. Solo che quella notte non era adatta né per gli angeli, né per i diavoli, né per i santi, né per i peccatori.

Spalancò la porta. Oltre la soglia c’era un uomo, e non un angelo.

Cerco rifugio”.

I capelli scuri erano zuppi di pioggia che gli imperlava la giacca di pelle.

Che diavolo ci fai qui?”, gli chiese lei, incrociando le braccia al petto, consapevole della scollatura della camicia da notte. Avrebbe dovuto mettersi una vestaglia.

Sto implorando per un rifugio. Devo chiederlo ancora? Ho bisogno di un riparo”.

Mi hai seguita?” gli domandò.

La sera prima era arrivata in aereo a Marsiglia e aveva cenato con lui. Non poteva immaginare che l’avrebbe seguita fino in Germania.

Volevo arrivare prima, ma ho preso la svolta sbagliata alla casetta di Hansel e Gretel. Mi ha dato le indicazioni un bambina con un cappuccio rosso ed ora sono qui, Biancaneve”.

Hai trovato la strada fin qua, Cacciatore. Conosci la strada per tornare indietro”. Gli disse. “Non posso offrirti rifugio”.

Perchè no?”

Lo sai cosa succede se ti faccio entrare”.

Proprio quello che vogliamo entrambi”.

Non può essere. E non c’è bisogno che ti spieghi il motivo”.

Il sorriso sul volto di lui si spense.

Hai bisogno di me”, mormorò.

Non importa. Devo fare questa cosa da sola”.

Non devi farla da sola”. Fece un passo in avanti, quasi impercettibile. Le punte dei suoi stivali grigio chiaro, zuppi d’acqua, toccarono la soglia senza varcarla.
“Fai troppe cose da sola”.

Non posso lasciarti entrare”, ribadì lei, e di nuovo sentì quel groppo in gola.

Lui vuole che affronti questa cosa da sola?”

No”, rispose lei.”Non è quello che vuole”.

Fammi entrare”.

Sembra un ordine. Lo sai chi sono io. E sai anche che sono io a darli, gli ordini”.

Ana sentì vacillare la propria determinazione: era sul punto di sgretolarsi. Ventisei anni, alto e abbronzato, con i capelli scuri appena ondulati che invitavano ad essere accarezzati e arruffati dalle mani di una donna.

Gli occhi erano chiari, color del cielo: eredità della madre egiziana, e un viso che qualcuno avrebbe dovuto scolpire, in modo da immortalarlo per l’eternità… Come si poteva respingere un uomo simile?

Allora ordinami di entrare”, la supplicò lui.

Lei chiuse gli occhi e si aggrappò alla porta per sorreggersi. Era un errore, e lo sapeva. Aveva giurato ancora prima di vederlo che non l’avrebbe fatto, mai, e non con lui. E ora, dopo tutto quello che era accaduto e il dolore che voleva annientarla, chi l’avrebbe biasimata se si fosse consolata? Un uomo uno solo l’avrebbe biasimata. Ma questo bastava per fermarla?

Ordinami di entrare”, ripetè lui, e Ana aprì gli occhi. “Ti prego”.

Non aveva mai saputo resistere alle insistenze di un bel uomo.

Vieni dentro, Pascal”, disse con voce imperiosa al figlio di Alain.

E’ un ordine.”