Angelica

Okay…  allora questo è un piccolo estratto della storia che sto scrivendo.. scusate se ci sono errori di battitura, e buona lettura.

Ana

Le porse la mano destra perché lei la stringesse. Ange non potè far altro che dargli la sua destra. Non appena la mano di lei fu nella sua, lui strinse con le dita e l’attrasse a sé. Le tirò su la manica ed esaminò le due bruciature sul polso.

“Beh, che cavolo fai?”, gli chiese Ange, cercando di tirare il braccio indietro. Lui non le diede ascolto, trattenendola lì con la sua forza impossibile.

“Hai delle ustioni di secondo grado sul braccio e grosse sbucciature sulle ginocchia. Potresti dirmi come te le sei fatte?”

“Non sono affari tuoi”.

Il professore la esaminò stringendo gli occhi color verde foresta. Non sembrava assolutamente offeso dal suo linguaggio sboccato.

“Angelica”, disse.”Dimmi chi ti ha fatto male. E dimmelo subito”.

Ange sentì la forza della sua volontà premere su di lei come un muro.

“No. Tu non mi hai neanche detto come ti chiami”.

“Se ti dico come mi chiamo, tu mi dirai delle bruciature?”.

Lui lasciò andare la mano, e lei ritrasse il braccio, portandoselo alla pancia. Sentiva tutto il corpo vibrare per i tocco di quell’uomo, e per come la scrutava con quello sguardo irriducibile.

Rimase ferma e in silenzio mentre lui la guardava in faccia, finchè non incontrò riluttante il suo sguardo.

“Riferirai a qualcuno quello che sto per dire?”. L’idea di raccontare a chicchesia una cosa tanto personale non la faceva certo impazzire, ma chissà perché, per un motivo che non sapeva definire, si fidava di quell’uomo, di quel professore.

“Non lo dirò ad anima viva”.

“Okay. D’accordo, il tuo nome?”

Lui infilò una mano nella sella di pelle nera della motocicletta e ne estrasse quella che sembrava un’agenda in lingua straniera. Aprì la copertina consumata su una pagina dove aveva scritto il suo nome con un grosso tratto d’inchiostro nero, in una calligrafia forte e chiara.

“Rupert Anderson”.

Lei alzò una mano, e con la punta del dito tracciò le lettere del nome.

“Rupert… Ho detto bene?”

“Lo dici all’ italiana”.

“Come si dovrebbe pronunciare?”.

“Mi piace come lo dici. Dovrei sapere che non è questo il nome con cui mi chiama la gente di qui. E’ il nome che mi ha dato mia madre. Purtroppo, sono costretto ad usare quello che invece mi ha dato mio padre, Andrew Forest”.

“Così, qui nessuno conosce il tuo vero nome?”. Se aveva scritto Rupert Anderson sull’agenda, voleva dire che considerava Rupert il suo vero nome, e non Andrew.

“Solo tu. E ora che te l’ho detto, mi aspetto una risposta”.

“Non è una gran confessione”.

“Angelica…”

“Mi chiamo Ange, non Angelica”.

“Angelica è un nome da regina. Ange è solo un nomignolo. Io ti chiamerò Angelica. E ora, Angelica, dimmi come sei arrivata alle bruciature sui polsi. Poi parleremo delle ginocchia”.

“La piastra”.

“E’ una forma di autolesionismo o qualcuno ti fa del male a casa?”

“Autolesionismo”.

“Perché l’hai fattto?”

“Per divertimento”.

“Ti piace farti del male?”. La sua domada era priva di turbamento o disgusto. Nella voce di quell’uomo, non avvertiva altro che curiosità. Annuì.

“Pensi che sia pazza?”

“A me sembri del tutto normale. A parte quello che indossi”.

“Come? Non ti piace il grunge?”

“Anche i tuoi capelli mi preoccupano”.

“Che c’è che non va nei miei capelli?”

“Sono diventati verdi”.

“Non sono ammuffiti”, rispose lei, ridendo dello scherzoso sguardo di disapprovazione di lui. “E’ gel. Crea delle strisce verdi”.

“Quanti anni hai?”

“Quindici. Ma tra due settimane ne faccio sedici”. Sentì la necessità di aggiungere quel particolare. “Mamma dice che sei troppo giovane per essere un insegnante”.

“Ho ventinove anni. Ma cercherò di invecchiare in fretta per lei. Sono sicuro che fare il professore in una scuola che frequenti tu mi farà invecchiare considerevolmente”.

“Farò del mio meglio”. Ange gli rivolse un ampio sorriso, giocherellando con i polsini della giacca. Poi cadde di nuovo in un silenzio imbarazzato. Lui non sembrava assolutamente a disagio. Sembra che si divertisse un mondo a verla così in difficoltà.

“Adesso dimmi delle ginocchia. Quelle sbucciature sono impressionanti”.

“Sono caduta”, rispose.”Succede”.

“Non mi sembri un’imbranata. Ma forse mi sbaglio”.

Si morse le labbra. Lei? Imbranata?

“Non sono imbranata. Mai e poi mai. Il mio insegnante di ginnastica dice che mi muovo come un gatto”.

“Allora da dove vengono quelle ferite alle ginocchia?”

“C’è stata una rissa a scuola”.

“Spero che lei sia ridotta peggio di te”.

“Lui”, precisò con orgoglio. “Sta  bene. Però cammina ancora storto”.

Rupert sgranò gli occhi.

“Hai picchiato un ragazzo della scuola?”. La sua voce sembrava leggermente esterreffata.

“Non è colpa mia. A scuola c’è questa ragazza, Francesca Panella. E come se un nome orribile non bastasse, ha due tette enormi. Ha paura persino della sua ombra e non farebbe mai a botte. Questa ragazzo, Matt, la prendeva in giro sull’autobus, dicendo una serie di stronzata sulle sue tette. Io gli ho detto di smetterla. Allora lui ha cominciato a dire stronzate su di me. Diceva cose  come “Voglio il tuo corpo, Ange”. Così io gli ho detto che poteva averlo il mio corpo. e gli ho dato un calcio. Proprio nelle palle. E’ stato fantastico. Quando siamo scesi dall’autobus, mi ha spinto così forte da farmi cadere sulle ginocchia, e me le sono sbucciate. Capirai. Un tipico martedì alla scuola cattolica. Soldi delle tasse mal spesi”.

Lui continuava a guardarla. I suoi occhi erano ancora più spalancati.

“Professore Anderson? Rupert? Chiunque tu sia?”. Fece un gesto con la mano.

“Scusami. La tua storia mi ha lasciato di stucco. Forse ero in trance”.

“Fortunatamente per me, è successo tutto nella parte posteriore dell’autobus, così l’autista non ha visto niente. altrimenti la vicepreside mi faceva il culo. Mi ha detto che se mi mandano da lei un’altra volta mi crocifigge pubblicamente per dare l’esempio al resto della scuola. Forse stava solo scherzando”.

“Ti sei meritata un trattamento del genere?”

“Forse. In classe ho detto che santa teresa non stava facendo un’esperienza mistica, ma in realtà aveva un orgasmo. Ho anche dato delle motivazioni. Diceva che l’angelo la “configgeva” con il suo “dardo di fuoco” giù “fino alle viscere” e che la cosa le causava “un’estasi”. Per enfatizzare il tutto Ange fece con le dita il segno delle virgolette. “Quella non era un’esperienza mistica. Era un orgasmo stratosferico. La vicepreside non ha apprezzato la mia teologia”.

“Io apprezzo la tua teologia”.

Angelica aprì la bocca, poi la richiuse. Non aveva parole. Nessuna. Non aveva idea di cosa dire.

“Adesso vado via”, annunciò.

“Perché?”

“Vuoi che rimanga?”

“Sì”

Lo guardò, diffidente.

“Nessuno vuole mai che io resti. Sai, dopo che ho iniziato a parlare”.

“Io voglio che resti”, ribadì lui. “E vorrei che continuassi a parlare”

“Non sto interrompendo la tua partita di Basket?”

“Basket?”

“Tutti i professori giocano a basket, no?”

“Non questo insegnate”.

“A cosa giochi tu?”

“Altri giochi”. Qualcosa nel modo in cui disse la parola giochi le fece rattrappire le dita dentro le vans.

“Allora dovrei lasciarti ai tuoi altri giochi”.

“Fai una cosa per me prima che me ne vada”.

“Che cosa?”

“Sciogliti i capelli”.

Stavolta non stette a discutere, non chiese il perché si tolse l’elastico dai capelli, fece scorrere le dita tra le ciocche spettinante e lasciò cadere le mani sui finchi.

“Dammi la mano destra”

Lui le tese di nuovo la mano e prese tra le dita il suo polso privo di bruciature. Le tolse l’elastico dalla mano sinistra e glielo mise al polso. Infilando due dita tra l’elastico e il polso, lo sollevò in alto poi lo lasciò andare, colpendo quella pelle sensibile così forte da farla trasalire.

“Cazzo.. fa male. Perché l’hai fatto ?”

“Le bruciature che hai sul polso impiegheranno mesi a guarire del tutto. Ci sono altri modi per procurarti dolore senza lasciare cicatrici. Dovresti impararli”.

Ange si guardò il polso. La pelle le doleva ancora, ma il rossore stava già sbiadendo.

“Tu.. hai appena…”.

“Il tuo copro è un tempio, Angelica. Dovresti trattarlo come il vaso sacro e inestimabile che è. Ho imparto una cosa, una sola, guardando la moglie di mio padre. Se vuoi cambire arredamento, impara a farlo bene, oppure rivolgiti a un professionista”.

Tolse il casco dal manubrio e accese la moto. Il motore potente cominciò a rombare, ed Angelica percepì le vibrazioni che da terra le risalivano su fino allo stomaco.

“Tu non sei un professore normale, eh?”

Lui le rivolse un sorriso che la colpì come uno schiaffo in faccia, e allo stesso tempo come un bacio sulle labbra.

“Dio mio, spero di no”.

Detto questo si infilò il casco e con il tallone calciò via il cavalletto. Angelica fece tre grandi passi indietro. Lui se ne andò dal parcheggio, lasciandola lì da sola.

Lo guardò finchè non scomparve dalla sua vista. Poi restò in ascolto  fino a quando il rombo del del motore non si spense del tutto.

“Sono tua, Rupert”. Mormorò a nessun altro se non a Dio, e non sapeva cosa intendesse. Sapeva solo che era vero. Era sua, a dispetto di tutte le conseguenze. Era sua. Amen. E così sia.